Aveva posato l'indice sull'essere che stava dentro il barattolo. «L'esecuzione è mediocre,» disse. «E l'angolazione è diversa. In altre raffigurazioni, il corpo si vede meglio, con più particolari. I cosi che spuntano dalla testa...»
«Somigliano alle antenne che i terrestri, anticamente, usavano per captare le trasmissioni televisive,» disse Horton. «Oppure potrebbero rappresentare una corona.»
«Sono antenne,» disse Elayne. «Antenne biologiche, ne sono sicura. Forse organi dei sensi. La testa, qui, sempre solo un grumo. Non ho mai visto altro. Niente occhi, né orecchie, né bocca o naso. Forse non he hanno bisogno. Forse le antenne forniscono tutti i dati sensoriali necessari. Può darsi che le teste siano soltanto grumi, supporti per le antenne. E la coda. Qui non si vede, ma la coda è ispida. Il resto del corpo, almeno da quanto ho potuto dedurre dalle altre raffigurazioni che ho visto, è sempre vago... una specie di corpo generalizzato. Naturalmente, non possiamo essere sicuri che abbiano proprio questq aspetto. Può darsi che sia solo una rappresentazione simbolica.»
«L'esecuzione artistica è mediocre,» disse Horton. «Rozza e primitiva. Tu non penseresti che un popolo capace di costruire i tunnel avrebbe dovuto lasciare immagini migliori di se stesso?»
«L'ho pensato anch'io,» disse Elayne. «Forse non furono i costruttori dei tunnel ad eseguire queste immagini. Forse non hanno neppure senso artistico. Forse queste opere d'arte sono state eseguite da altri popoli, magari inferiori, che hanno attinto non da una conoscenza diretta, ma dal mito. Forse il mito dei costruttori dei tunnel sopravvive in gran parte della galassia, condiviso da molti popoli diversi, da molte, diverse memorie razziali che hanno resistito nei secoli.»
16.
Il fetore dello stagno era orripilante, ma si attenuava via via che Horton si avvicinava. La prima zaffata era stata peggio che laggiù, accanto all'acqua. Forse, si disse, puzzava di più quando cominciava a disgregarsi e a dissiparsi. Lì, dove era più denso, era mascherato da altre componenti, le componenti non fetide che contribuivano a formarlo.
Lo stagno, notò Horton, era più grande di quanto gli fosse parso quando l'aveva visto la prima volta, dal villaggio in rovina. Era placido, senza un'increspatura. La riva era sgombra: non vi crescevano cespugli, né canne, né vegetazione d'altro tipo. A eccezione dei piccoli rivoletti di sabbia portati dall'acqua che scendeva dal fianco della collina, la riva era di granito. Lo stagno si era formato in un conca di roccia. E com'era pulita la riva, lo era anche l'acqua. Non c'era la schiuma che ci si poteva aspettare in uno specchio d'acqua stagnante. A quanto pareva, lì dentro non poteva esistere vegetazione, forse nessun forma di vita. Ma sebbene fosse pulito, non era limpido. Sembrava racchiudere un'oscurità tenebrosa. Non era azzurro né verde... era quasi nero.
Horton s'era fermato sulla riva, tenendo in mano l'avanzo della carne. Intorno allo stagno, intorno alla sua conca, aleggiava una sorta di tetraggine che scoloriva nella malinconia, se non nella paura. Era un luogo deprimente, ma aveva un suo fascino, si disse. Era un luogo dove un uomo poteva acquattarsi e covare pensieri morbosi... morbosi e romantici. Un pittore, forse, avrebbe potuto servirsene come modello per dipingere un laghetto solitario, trasfondendo nella composizione un senso di solitudine perduta, di distacco dalla realtà.
Siamo tutti perduti, aveva scritto Shakespeare in quella lunga annotazione alla fine del Pericle. L'aveva scritto solo in senso allegorico, ma lì, a meno di un miglio dal punto in cui l'aveva scritto alla luce vacillante della candela grossolana, c'era la perdizione di cui aveva parlato. Aveva scritto giustamente, quello strano umano venuto da qualche altro mondo, pensò Horton, perché pareva ormai che tutti fossero perduti. Nave e Nicodemus e lui stesso erano perduti nell'immensità del non ritorno, e se quanto aveva detto Elayne era vero, era perduto anche il resto dell'umanità. Forse i soli che non lo erano erano quei pochi rimasti ancora sulla Terra. Per quanto potesse essere divenuta povera, la Terra era ancora la loro patria.
Eppure, pensandoci bene, Elayne e gli altri cercatori dei tunnel forse non erano perduti come tutti gli altri. Lo erano, forse, perché non sapevano mai dove potevano finire, o che genere di pianeta avrebbero trovato: ma senza dubbio non erano perduti al punto di aver bisogno di sapere esattamente dov'erano... autosufficienti, tanto da non aver bisogno di altri umani, né della familiarità... strani esseri che avevano superato il bisogno di una casa e di una patria. Ed era questo, si chiese Horton, il modo per sconfiggere il senso di perdizione? Non aver più bisogno di una casa e di una patria?
Si avvicinò all'orlo dell'acqua e scagliò lontano la carne. Cadde con un tonfo e scomparve immediatamente, come se lo stagno l'avesse accettata, protendendosi per prenderla, risucchiandola in se stesso. Dal centro dello spruzzo si allargarono increspature concentriche, ma non arrivarono a riva. Sparirono. Procedevano per un tratto, poi si appiattivano e scomparivano: lo stagno ritornò alla sua calma serenità, alla sua tenebrosità piatta. Come se, pensò Horton, considerasse preziosa la serenità e non tollerasse perturbazioni.
Ora, pensò, doveva andarsene. Aveva fatto quel che era venuto a fare, ed era tempo di andarsene. Ma non se ne andò; rimase. Come se qualcosa, lì, gli dicesse di non andar via, come se, inspiegabilmente, dovesse indugiare, come un uomo indugia al capezzale di un amico morente, e vorrebbe andarsene, a disagio di fronte all'imminenza della fine, e tuttavia rimane perché sente che, andandosene troppo presto, rinnegherebbe una vecchia amicizia.
Si guardò intorno. A sinistra torreggiava il dorsale dove stava il villaggio abbandonato. Ma dal punto in cui si trovava, non se ne scorgeva traccia. Le case erano nascoste dagli alberi. Davanti a lui si stendeva una palude, sembrava, e a destra c'era una collina conica, un tumulo, che non aveva notato fino ad ora, e che non spiccava nettamente dal dorsale del villaggio.
Calcolò che era alta una sessantina di metri dal livello dello stagno. Era simmetrica; sembrava un cono perfetto, affusolato, con la punta frastagliata. Ricordava un po' i coni delle ceneri vulcaniche, ma Horton sapeva che non lo era. A parte il fatto che evidentemente non poteva essere un cono, non sapeva spiegarsi perché ne avesse escluso immediatamente il carattere vulcanico. Vi crescevano qua e là alberi solitari, ma per il resto, l'unica vegetazione era costituita da una sorta d'erba che lo rivestiva. Mentre lo guardava, aggrottò la fronte, perplesso. Non c'era nessun fattore geologico che avesse osservato o che riuscisse a ricordare sul momento, e che potesse spiegare una formazione come quella.
Dedicò nuovamente l'attenzione allo stagno, ricordando ciò che aveva detto Carnivoro... che non era veramente acqua, era piuttosto una broda, era troppo densa e pesante per essere acqua.
Si accostò all'orlo, si acquattò e, cautamente, tese un dito per toccare il liquido. La superficie parve opporre una leggera resistenza, come avesse una notevole tensione superficiale. Il dito non si immerse: anzi, sotto la leggera pressione, il liquido si incurvò un poco sotto il polpastrello. Horton premette più forte, e il dito passò. Immerse la mano, ruotò il polso in modo che il palmo, piegato a coppa, fosse rivolto verso l'alto. Alzò la mano, lentamente, e vide di aver raccolto un po' di liquido. Era immobile nel cavo del palmo, e non filtrava tra le dita chiuse imperfettamente, come avrebbe fatto l'acqua. Sembrava tutto d'un pezzo. Santo Dio, pensò Horton, un pezzo d'acqua!
Ma ormai sapeva che non era acqua. Strano, pensò, che Shakespeare non avesse saputo dire nulla, se non che sembrava una broda. O forse aveva detto di più. C'erano molte annotazioni, nel libro, e lui ne aveva letto solo pochi paragrafi. Una broda, aveva detto Carnivoro, ma non era esatto. Era più caldo di quanto Horton avesse immaginato, e più pesante, anche se era questione d'impressioni e, per essere certo, avrebbe dovuto pesare il liquido, e non ne aveva la possibilità. Era viscido al tatto, sfuggente. Come mercurio, ma non era mercurio: di questo era certo. Girò il polso e lasciò che il fluido scorresse via. Quando fu vuoto, il palmo della sua mano rimase asciutto. Il liquido non bagnava.
Incredibile, si disse. Un liquido più caldo dell'acqua, più pesante, coesivo, e non bagnava. Forse Nicodemus aveva un transmog... no, al diavolo. Nicodemus aveva un lavoro da sbrigare e, appena l'avesse terminato, se ne sarebbero andati da quel pianeta, avanti nello spazio, probabilmente verso altri pianeti, o forse senza meta. E se fosse stato così, lui sarebbe rimasto ibernato, non sarebbe stato richiamato in vita. Il pensiero sembrava spaventarlo meno di quanto sarebbe stato logico.
Ora, per la prima volta, ammetteva ciò che aveva in fondo alla mente, da sempre. Quel pianeta non andava. Carnivoro l'aveva detto nelle prime parole di benvenuto, che non era un buon pianeta. Non era pericoloso, né spaventoso, né ripugnante... non valeva niente. Non era il posto dove un uomo poteva desiderare di restare.
Cercò di analizzare le ragioni di quel pensiero, ma sembrava non vi fossero fattori specifici da allineare e contare. Era solo un'intuizione, una reazione psicologica inconscia. Forse il guaio era che quel pianeta era troppo simile alla Terra... una sorta di Terra sciatta. Aveva immaginato che un pianeta alieno fosse alieno, e non una copia sbiadita e insoddisfacente della Terra. Molto probabilmente, altri erano alieni in modo più soddisfacente. Avrebbe dovuto chiederlo ad Elayne: lei lo avrebbe saputo. Strano, ,pensò, com'era uscita dal tunnel ed aveva salito il sentiero. Strano che, su quel pianeta, due vite umane s'incrociassero... no, non due, ma tre, perché aveva dimenticato Shakespeare. Chissà come, il fato aveva frugato nella sua borsa piena di trucchi ed aveva estratto tre umani, in un arco di tempo limitato... così limitato da farli incontrare, o quasi, nel caso di Shakespeare... in modo che tutti e tre influissero l'uno sull'altro. Adesso Elayne era giù, al tunnel, insieme a Nicodemus, e tra poco Horton li avrebbe raggiunti. Ma prima, probabilmente, avrebbe esaminato quella collinetta conica. Tuttavia, non sapeva come indagare, né cosa avrebbe potuto rivelargli l'indagine. Ma, inspiegabilmente, sembrava importante che le desse un'occhiata. Molto probabilmente aveva quella sensazione, si disse, perché sembrava tanto fuori posto.
Si alzò, fece lentamente il giro dello stagno, dirigendosi verso la collina. Il sole, a metà del cielo, ad oriente, era caldo. Era azzurro pallido, senza traccia di nubi. Horton si sorprese a chiedersi com'era il clima, su quel pianeta. Lo avrebbe chiesto a Carnivoro: era lì da un tempo sufficiente per saperlo.
Aggirò lo stagno e arrivò ai piedi della collina. L'erta era così ripida da costringerlo a procedere sulle mani e sulle ginocchia, piegandosi in avanti per afferrarsi a quella specie d'erba, per non scivolare in basso.
A metà della salita si fermò, ansimando. Si distese, piantando le mani nel suolo per non sdrucciolare. Girò la testa per guardare lo stagno. La superficie, adesso, era azzurra anziché nera. La tenebra lucida rispecchiava, l'azzurro del cielo. Horton ansimava tanto, per lo sforzo, che gli pareva di sentire la collina ansimare con lui... o forse, era come se nell'interno vi fosse un grande cuore che pulsava ritmicamente.
Ancora semisfiatato, riprese a procedere, sulle mani e sulle ginocchia, e finalmente raggiunse la cima. Là, da una piccola piattaforma che coronava la collina, guardò dall'altra parte, e vide che aveva veramente la forma di un cono. Per tutta la circonferenza, il pendio saliva con la stessa angolazione, come dalla parte da cui si era arrampicato lui.
Sedette incrociando le gambe e guardò oltre lo stagno; sul dorsale di fronte, riuscì a distinguere qualche tratto in muratura del villaggio deserto. Tentò di seguire i contorni delle case, ma si accorse che era impossibile, a causa della fitta vegetazione. Un po' sulla sinistra c'era la casa di Shakespeare. Un sottile filo di fumo si levava dal fuoco. Non si vedeva nessuno, in giro. Carnivoro, molto probabilmente, non era tornato dalla caccia. E data la depressione del terreno, non poteva vedere il tunnel.
Distrattamente, tirò qualche ciuffo di quella specie d'erba. Alcuni si staccarono, con l'argilla attaccata alle radici. Argilla, si disse, che strano. Che ci faceva l'argilla, lì? Estrasse dalla tasca un temperino, aprì una lama e la piantò nel suolo, scavando una piccola buca. Era tutta argilla, fin dove riuscì ad arrivare. E se fosse stata così l'intera collina? si chiese. Una specie di mostruosa bolla, sollevatasi in un'epoca lontanissima e rimasta lì fino ad ora. Ripulì la lama, rimise in tasca il temperino. Sarebbe stato interessante, pensò, se ne avesse avuto il tempo, studiare la geologia di quel posto. Ma che importanza aveva? Sarebbe occorso molto tempo, e lui non intendeva rimanere così a lungo.
Si alzò, e discese cautamente il pendio.
Al tunnel trovò Elayne e Nicodemus. Lei era seduta su un macigno, e guardava lavorare il robot, che impugnava uno scalpello e un martello e stava incidendo una linea intorno al quadro.
«Sei tornato,» disse Elayne a Horton. «Come mai ci hai messo tanto?»
«Ho esplorato un po'.»
«Nella città? Nicodemus me ne ha parlato.»
«Non sono stato nella città,» disse Horton. «E non c'è nessuna città.»
Nicodemus si girò, con il martello e lo scalpello che gli penzolavano nella mano. «Sto cercando di staccare il quadro dalla roccia,» disse. «Forse, se ci riesco, potrò arrivarci da tergo e lavorare così.»
«Riuscirai soltanto a tagliare i fili,» disse Horton.
«Non credo che ci siano fili,» disse Elayne. «Non può essere un sistema tanto grossolano.»
«E forse,» disse Nicodemus, «se riesco a liberare il pannello, potrò scalzare il coperchio.»
«Il coperchio? Dicevi che era un campo di forza.»
«Non so cosa sia,» disse Nicodemus.
«A quanto ho capito,» disse Horton, «non c'era la seconda scatola. Quella che attiva il coperchio.»
«No,» disse Elayne. «E questo significa che qualcuno ha manomesso l'impianto. Qualcuno che non voleva permettere a nessuno di lasciare il pianeta.»
«Vuoi dire che il pianeta è chiuso?»
«Credo di sì,» disse lei. «Immagino che dovesse esserci qualche avvertimento, davanti agli altri tunnel, per sconsigliare di usare il selettore che poteva portare su questo pianeta: ma se c'era, i cartelli sono spariti da tempo, o forse ci sono ancora e noi non siamo stati in grado di riconoscerli.»
«E anche se li avesse riconosciuti,» disse Nicodemus, «probabilmente non sarebbe stata capace di leggerli.»
«È esatto,» disse Elayne.
Carnivoro stava arrivando, lungo il sentiero. «Sono tornato con carne nuova e fresca,» annunciò. «Come va, qui? Avete risolto tutto?»
«No,» disse Nicodemus, e si rimise al lavoro.
«Ci metti parecchio,» disse Carnivoro.
Nicodemus tornò a voltarsi di scatto. «Non starmi addosso!» scattò. «Non fai altro che ossessionarmi da quando ho cominciato. Tu e il tuo amico Shakespeare siete stati per anni senza combinar nulla, e adesso pretendi che noi risolviamo tutto in un'ora o due.»
«Ma gli utensili li hai,» gemette Carnivoro. «Utensili e competenza. Shakespeare non li aveva, e neppure io. Pensavo che, con gli utensili e la competenza...»
«Carnivoro,» disse Horton, «non ti abbiamo mai assicurato di poter fare qualcosa. Nicodemus ha detto che avrebbe tentato. Non ti ha garantito niente. Smettila di comportarti come se infrangessimo una promessa. Non te ne abbiamo mai fatte.»
«Forse è meglio,» disse Carnivoro, «che tentiamo un po' di magia. Magia messa insieme. La mia magia, la tua magia e la sua magia.» E indicò Elayne.
«La magia non servirebbe a niente,» fece brusco Nicodemus. «La magia non esiste.»
«Oh, esiste, sicuro,» disse Carnivoro. «Su questo non c'è dubbio.» E si appellò ad Elayne. «Non lo diresti anche tu?»
«Io ho visto la magia,» disse lei, «o quella che veniva considerata tale. In parte sembrava funzionare. Non sempre, naturalmente.»
«Pura coincidenza,» disse Nicodemus.
«No, più che una coincidenza,» disse Elayne.
«Perché non ce ne andiamo tutti quanti,» disse Horton, «e lasciamo lavorare in pace Nicodemus? A meno che,» disse al robot, «tu ritenga di aver bisogno d'aiuto.»
«Non ne ho bisogno,» disse Nicodemus.
«Andiamo a vedere la città,» propose Elayne. «Muoio dalla voglia di visitarla.»
«Ci fermeremo al campo, a prendere una lampada tascabile,» disse Horton. E chiese a Nicodemus: «Ce l'abbiamo, vero?»
«Sì,» disse il robot. «La troverai nello zaino.»
«Tu vieni con noi?» chiese Horton a Carnivoro.
«No, se non ti dispiace,» disse Carnivoro. «La città mi rende nervoso. Resterò qui. Terrò allegro il robot.»
«Tu terrai la bocca chiusa,» disse Nicodemus. «Non mi respirerai addosso. Non mi darai consigli non richiesti.»
«Mi comporterò,» disse umilmente Carnivoro, «come se non ci fossi.»
17.
I comitati erano stati la sua vita, ammise la gran dama di fronte a se stessa, e c'era stato un tempo in cui aveva pensato a quella realtà attuale come ad un'attività di comitato. Un altro comitato, si era detta, cercando di dominare la paura di ciò che aveva accettato, cercando di ridurlo a termini comuni e comprensibili per lei, in modo che non lasciasse adito alla paura. Eppure,ricordava, quella paura era stata controbilanciata da un'altra. E perché,si chiese, perché il movente doveva essere la paura? Allora, naturalmente, tranne in certi momenti segreti, non aveva ammesso di aver paura. Aveva detto a se stessa, inducendo anche gli altri a crederlo, di aver agito per puro altruismo, di non aver altro pensiero che il bene dell'umanità. Le avevano creduto, o almeno pensava che le avessero creduto, perché quel movente e quel gesto si inquadravano così bene in ciò che aveva fatto per tutta la vita. Era conosciuta per le sue buone azioni, per la profonda pietà verso l'umanità sofferente, ed era facile supporre che la sua dedizione al bene della gente della Terra l'avesse condotta a quel sacrificio finale.
Eppure, a quanto poteva ricordare, non l'aveva mai considerato un sacrificio. Era stata disposta, ricordò, a lasciare che gli altri lo ritenessero tale, e qualche volta aveva addirittura incoraggiato quella convinzione. Sembrava un atto molto nobile sacrificarsi, e lei voleva essere ricordata per le sue azioni nobili, e quell'ultima era la più grande di tutte. Nobiltà ed onore, pensò; erano state le cose più preziose, per lei. Ma, dovette riconoscere, non una nobiltà tranquilla ed un onore silenzioso, perché in tal caso lei non sarebbe stata notata. E quello sarebbe stato impensabile, perché aveva bisogno di attenzione e di approvazione. Presidentessa, ex presidentessa, delegata, rappresentante nazionale, segretaria, tesoriera di organizzazioni ed organizzazioni, fino a quando non aveva più avuto tempo per pensare, con tutti gli istanti occupati, sempre in movimento.
Senza tempo per pensare? si chiese. Era la giustificazione di tutti i suoi sforzi frenetici? Non l'onore e la gloria, ma non essere costretta a pensare? Non dover pensare ai matrimoni falliti, agli uomini che si allentavano da lei, al vuoto che sentiva via via che passavano gli anni?
Per questo era lì, e lo sapeva. Perché era stata una fallita... perché aveva deluso non solo gli altri, ma anche se stessa, ed alla fine aveva riconosciuto di essere una donna che cercava freneticamente qualcosa che le mancava, che le era mancato, forse, perché non ne aveva riconosciuto il valore se non quando era stato troppo tardi.
E in quanto a questo, l'attuale impresa era andata bene, sebbene in molte occasioni ne avesse dubitato.
Non c'è mai stato un momento in cui io abbia dubitato, disse lo scienziato. Io sono sempre stato sicuro.
Hai spiato, disse la gran dama, amaramente. Hai spiato i miei pensieri. Non esiste più l'intimità? I pensieri personali dovrebbero restare segreti. Spiare e una scortesia.
Noi siamo una cosa sola, disse lo scienziato, o dovremmo esserlo. Non più tre personalità, non più una donna e due uomini. Ma una niente, una mente sola. Eppure restiamo isolati. Siamo separati per un tempo più lungo di quanto stiamo insieme. Ed è per questo che abbiamo fallito.
Non abbiamo fallito, disse il monaco. Abbiamo appena incominciato. Abbiamo l'eternità, ed io sono quello che può definire l'eternità. Ver tutta la vita ho vissuto l'eternità, sempre sospettando che per me l'eternità non ci sarebbe stata. Né per me, né per nessuno. Ma ora so che sbagliavo. Abbiamo trovato l'eternità, noi tre... se non l'eternità in atto, ciò che potrebbe esserlo. Siamo cambiati e cambieremo ancora, e negli eoni che trascorreranno prima che questa nave materialistica si riduca in polvere, indubbiamente diverremo una mente eterna, che non avrà bisogno della Nave e neppure dei cervelli biologici in cui sono ora racchiuse le nostre menti. Diventeremo un'unica entità libera, che potrà vagare per sempre nell'infinito. Ma credo di avervi detto che avevo una definizione di eternità. Non è una definizione, in realtà, ma una graziosa fiaba. La Chiesa, dovete capire, nel corso dei secoli formulò molte fiabe graziose. Questa parla ài una montagna alta un miglio e di un uccello. Ogni mille anni l'uccello, che ai fini della storia era estremamente longevo, sorvolava la montagna, e la sfiorava con la punta di un'ala, logorandone un segmento infinitesimale. Ogni mille anni l'uccello ritornava: ed alla fine, con l'impatto dell'ala, consumava la montagna, la spianava. E questo, voi direste, questo logoramento d'una montagna compiuto dall'ala di un uccello ogni mille anni, sarebbe l'eterniià. Ma sbagliereste. Non sarebbe altro che l'inizio dell'eternità.
È una fiaba sciocca, disse lo scienziato. Eternità non è un termine che si presti ad una definizione. È vago e generico, e non possiamo assegnargli un valore, come non possiamo assegnarlo ad infinito.
A me la fiaba è piaciuta, disse la gran dama. Suona bene. È il tipo di storia semplice che io trovavo tanto eloquente nei discorsi che pronunciavo davanti a tanti gruppi diversi, per tante cause diverse. Ma se adesso mi chiedeste di elencare quei gruppi e quelle cause, mi sarebbe molto difficile. Vorrei aver conosciuto allora la tua fiaba, Monaco. Sono sicura che avrei trovato l'occasione di usarla. Sarebbe stata molto efficace. Avrebbe scatenato un uragano di applausi.
È una storia sciocca, disse lo scienziato, perché molto tempo prima che il tuo uccello longevo fosse riuscito a lasciare un segno lievissimo sulla montagna, le forze naturali dell'erosione l'avrebbero ridotta in pratica ad una pianura.
E tu hai un vantaggio su noi due, disse il monaco, in tono di disapprovazione. Hai una logica scientifica che guida i tuoi pensieri e interpreta le tue esperienze.
La logica dell'umanità, disse lo scienziato, è un bastone ben misero cui appoggiarsi. È dettata dall'osservazione, e nonostante i nostri strumenti meravigliosi, le nostre osservazioni erano molto limitate. Ora noi tre dobbiamo formulare una logica nuova, basata sulle osservazioni attuali. Sono sicuro che scopriremo molti errori nella nostra logica terrestre.
Io conosco poco la logica, a parte quella che ho studiato come uomo di chiesa, disse il monaco, e si basava su oscure ginnastiche intellettuali più che sulle osservazioni scientifiche.
Ed io, disse la gran dama, non agivo in base alla logica, bensì a certe tecniche usate per promuovere le attività in cui mi ero impegnata, anche se ora non sono certa che impegnata sia la parola adatta. Proprio adesso, cercavo di ricordare quanto ero impegnata nelle cause per cui mi adoperavo. In tutta franchezza, credo non fossero tanto le cause a motivarmi, quanto l'occasione che mi offrivano di acquisire e utilizzare certe posizioni di potere. Pensandoci ora, quelle posizioni di potere che mi sembravano tanto desiderabili ed esaltanti si dileguano nel nulla. Ma in verità, debbo essermi distinta agli occhi dell'opinione pubblica, altrimenti non mi sarebbe stato concesso l'onore accordato a noi tre, quando si decise che uno di noi doveva essere una donna. Perciò suppongo che dirigere numerosi comitati, far parte di molte commissioni, partecipare a varii gruppi di studio su argomenti di cui non sapevo nulla, e parlare ad assemblee grandi e piccole, dovesse apparire una cosa molto degna. E dopo tanto tempo, quando cerco di capire se è giusto che io sia qui, ne sono lieta. Sono lieta di essere qui. Se non ci fossi, Monaco, non sarei in nessun posto, perché non credo di essere mai riuscita a credere nella tua invenzione di un'anima immortale.
Non è una mia invenzione, disse il monaco. Neppure io credevo nella vita eterna. Cercavo di crederlo, perché nella mia attività crederlo era fondamentale. E c'era la mia paura della morte e, suppongo, anche della vita.
Tu accettasti il tuo posto, qui con noi, disse la gran dama, perché avevi paura della morte, ed io perché era un onore... perché non ero capace di rifiutare onore e stima. Temevo di venire spinta con l'inganno a fare qualcosa di cui mi sarei pentita, ma avevo cercato le luci della ribalta per troppo tempo per essere costituzionalmente capace di rifiutare. Almeno, mi dicevo, era un modo di andarmene con un clamore pubblicitario più grande di quanto avessi mai sognato.
E adesso, disse lo scienziato, ti pare che tutto vada bene? Sei convinta di aver avuto ragione ad accettare?
Ne sono convinta, disse lei. Comincio addirittura a dimenticare, ed è una fortuna. C'erano Ronny e Doug ed Alphonse...
Chi erano? chiese il monaco.
Gli uomini con cui sono stata sposata. Loro ed un paio d'altri di cui non ricordo il nome. Non mi dispiace dirvi, anche se un tempo mi sarebbe dispiaciuto, che ero un po' una donnaccia. Una donnaccia regale, ma comunque una lurida donnaccia.
Mi sembra, disse lo scienziato, che stiamo andando come si voleva. Impiegando più tempo, molto probabilmente, di quanto si prevedesse. Ma tra altri mille anni, forse, saremo riusciti a diventare ciò che dovevamo. Siamo sinceri con noi stessi e l'uno nei confronti degli altri, e immagino che c'entri anche questo. Non possiamo spogliarci completamente della nostra umanità in così poco tempo. La razza umana ha impiegato due milioni d'anni a realizzarla, e non è possibile gettarla via come fosse un vestito.
E tu, Scienziato?
Io?
Sì, tu. Noialtri due siamo finalmente sinceri. E tu?
Io? Non ci ho mai pensato. Non ho mai avuto un dubbio. Ogni scienziato, soprattutto un astronomo come me, avrebbe dato l'anima pur di partire. E pensandoci bene, figurativamente, forse ho dato l'anima. Ho intrigato per venire eletto in questo conglomerato di umanità, o come preferite chiamarlo. Ho intrigato per riuscirci. Avrei combattuto, per questo. Avevo supplicato certi amici, privatamente e discretamente, di assecondare la mia candidatura. Avrei fatto qualunque cosa. Non consideravo un onore la selezione. Non ho agito come voi due, per paura: eppure, in un certo senso, posso averlo fatto per la stessa ragione. Stavo invecchiando, vedete, e cominciavo a provare la sensazione assillante che mi rimanesse poco tempo, che la sabbia della clessidra stesse per esaurirsi. Sì, pensandoci bene, può esserci stata un po' di paura, una paura inconscia. Ma sostanzialmente, era la sensazione che non potevo permettermi di sprofondare nella tenebra finale quando c'era ancora tanto da fare. Non che quello che ora osservo o deduco possa avere qualche effetto sulla Terra, perché non faccio più parte della Terra.
Ma in ultima analisi, non credo che abbia mai avuto importanza. Lavoravo, non per la Terra né per i miei simili, ma per me stesso... per la mia soddisfazione personale. Non cercavo gli applausi. Diversamente da te, cara signora, io mi nascondevo. Rifuggivo la pubblicità. Non concedevo interviste e non scrivevo libri. Articoli scientifici, certo, per dividere le mie scoperte con i miei colleghi, ma niente per l'uomo della strada. Credo, tutto sommato, di essere o di esser stato un uomo estremamente egoista. Mi preoccupavo solo di me stesso. E adesso sono lieto di dirvi che con voi due mi trovo a mio agio. Come se fossimo vecchi amici, sebbene prima non lo fossimo mai stati; e forse nessuno di noi è veramente amico degli altri due secondo la definizione classica dell'amicizia. Ma se andiamo d'accordo, credo che, date le circostanze, possiamo chiamarla amicizia.
Che bell'equipaggio, siamo, disse il monaco. Uno scienziato egoista, una cacciatrice di gloria, e un monaco che aveva paura.
Aveva?
Non ho più paura. Non c'è più nulla che possa toccare me o voi. Ce l'abbiamo fatta.
Abbiamo ancora molta strada da percorrere, disse lo scienziato. Questo non è il posto né il momento per gloriarsi. Umiltà, umiltà, umiltà.
Sono stato umile per tutta la mia vita terrena, disse il monaco. Ora non lo sono più.
18.
«C'è qualcosa che non va,» disse Elayne. «Qualcosa fuori posto. No, forse non si tratta di questo. Ma c'è un qualcosa che non abbiamo scoperto. Qui c'è una situazione che attende... forse non noi, ma attende.»
Era tesa, quasi irrigidita, e Horton ricordò il vecchio setter con cui, qualche volta, era andato a caccia di quaglie. Un senso di attesa, sapere e non sapere, alzarsi in punta di piedi con acuta consapevolezza.
Aspettò e finalmente, con uno sforzo, lei si rilassò.
Elayne lo guardò con occhi imploranti, supplicandolo di crederle. «Non ridere di me,» disse. «Io so che c'è qualcosa, qui... qualcosa di straordinario. Non so cosa.»
«Non rido di te,» disse Horton. «Ti credo sulla parola. Ma come...»
«Non so,» disse lei. «Una volta, in una situazione simile, avrei diffidato di me stessa. Ma adesso no. È già accaduto molte volte. È quasi una certezza. Una premonizione.»
«Tu pensi che potrebbe essere pericoloso.»
«Non c'è modo di saperlo,» disse Elayne. «Solo quel senso di qualcosa.»
«Finora non abbiamo trovato nulla,» disse Horton: ed era vero. Nei tre edifici che avevano esplorato non c'era altro che la polvere, i mobili corrosi, le ceramiche ed i vetri. Per un archeologo, avrebbero potuto avere un significato, si disse Horton: ma per loro due era soltanto una vecchiaia, muffita, polverosa, ripetitiva, nel contempo futile e deprimente. Chissà quando, nel lontano passato, lì erano vissuti esseri intelligenti: ma ai suoi occhi inesperti, niente indicava lo scopo della loro presenza lì.
«Ci ho pensato spesso,» disse Elayne. «Perché non sono l'unica ad averlo. Ve ne sono altri. Una facoltà nuova, un istinto acquisito... impossibile dirlo. Quando gli uomini andarono nello spazio ed atterrarono su altri pianeti, furono costretti ad adattarsi — come diresti? — all'inverosimile, forse. Dovettero sviluppare nuove tecniche di sopravvivenza, nuove abitudini di pensiero, nuove intuizioni e nuovi sensi. Forse è questo che noi abbiamo: un senso nuovo, una nuova coscienza. I pionieri della Terra, quando si spinsero in aree sconosciute, svilupparono qualcosa del genere. E forse l'aveva anche l'uomo primitivo. Ma sulla vecchia Terra, assestata e civile, venne un tempo in cui non ce ne fu più bisogno, e andò perduto. In un ambiente civile vi sono poche sorprese. Si sa abbastanza bene quello che ci si può aspettare. Ma quando andò alle stelle, l'uomo riscoprì il bisogno della vecchia coscienza.»
«Non guardare me,» disse Horton. «Io sono uno di coloro che appartenevano a quella che tu chiami la Terra civile.»
«Era civile?»
«Perché ti possa rispondere, devi definire il termine. Che cos'è civile?»
«Non saprei,» disse Elayne. «Non ho mai visto un mondo completamente civile, nel senso in cui lo era la Terra. O almeno, credo di non averlo visto. Di questi tempi n'on si può mai essere sicuri. Tu ed io, Carter Horton, veniamo da epoche diverse. Forse vi saranno momenti in cui dovremo avere molta pazienza l'una con l'altro.»
«Parli come se avessi visto molti mondi.»
«Li ho visti,» disse lei. «Con questo lavoro di rilevamento. Arrivi in un posto, resti un giorno o due... be', magari di più, ma non a lungo. Solo quanto basta per fare qualche osservazione, buttar giù qualche appunto, farti un'idea di che tipo di mondo è. In modo da poterlo riconoscere, capisci, se per caso ci ritorni. Perché è importante sapere se il sistema dei tunnel ti riporta in un luogo dove sei già stato. In certi posti vorresti fermarti per qualche tempo. Di tanto in tanto, trovi un posto veramente piacevole. Ma sono pochi. Quasi sempre, sei ben contento di andartene.»
«Dimmi una cosa,» fece Horton, «Mi stavo chiedendo... Tu stai partecipando a questa spedizione ricognitiva. Tu la chiami così. A me sembra una caccia alle farfalle. Non puoi avere più di una probabilità su un milione, eppure...»
«Ti ho detto che ci sono anche gli altri.»
«Ma anche se foste un milione, uno solo di voi avrebbe la probabilità di ritornare ad un mondo che è stato visitato prima. E sarebbe tempo sprecato, se uno solo trovasse la via del ritorno. Dovreste essere in parecchi a riuscire, prima che vi fosse la probabilità statistica di realizzare la mappa dei tunnel, o almeno di cominciare a realizzarla.»
Elayne lo fissò freddamente. «Dal luogo da cui provieni, di certo, avrai sentito parlare della fede.»
«Certo che ho sentito parlare della fede. Fede in se stessi, nel proprio paese, nella propria religione. E questo che c'entra?»
«La fede è spesso tutto ciò che uno possiede.»
«La fede,» disse lui, «è pensare che sìa possibile qualcosa quando sei ben sicura che non lo è.»
«Perché sei così cinico?» chiese lei. «Così miope? Così materialista?»
«Non sono cinico,» disse Horton. «Ma tengo conto delle probabilità. E non eravamo miopi. Fummo noi, ricordalo, i primi ad andare alle stelle; e ci andammo, ci convincemmo ad andare, grazie al materialismo che tu hai l'aria di disprezzare tanto.»
«È vero,» riconobbe Elayne. «ma non è di questo che sto parlando. La Terra era una cosa; le stelle un'altra. Quando vai tra le stelle, i valori cambiano, i punti di vista si modificano. C'è un'antica frase... 'è un altro gioco'. Sai dirmi cosa significa?»
«Immagino alluda a un evento sportivo.»
«Vuoi dire quegli sciocchi esercizi che si eseguivano un tempo sulla Terra?»
«Non li eseguite più? Non ci sono più sport?»
«C'è troppo da fare, troppo da imparare. Non abbiamo più bisogno di cercare divertimenti artificiali. Non ne abbiamo il tempo e, anche se lo avessimo, non interesserebbero a nessuno.»
Elayne indicò un edificio semisepolto da cespugli ed alberi. «Credo sia quello,» disse.
«Quello?»
«Quello dov'è la stranezza. La cosa strana di cui ti ho parlato.»
«Dobbiamo andare a vedere?»
«Non so bene,» disse lei. «Per dirti la verità, ho un po' paura. Di quel che potremmo trovare, capisci?»
«Non ne hai idea? Dici di percepire questo qualcosa. La tua percezione arriva almeno a darti qualche accenno?»
Elayne scosse il capo. «Solo che è strano. Qualcosa di straordinario. Forse spaventoso, anche se non provo un vero spavento. Solo un'agitazione della mente, la paura dell'insolito, dell'inaspettato. Solo quel terribile senso di stranezza.»
«Sarà faticoso entrare,» disse Horton. «La vegetazione è molto fitta. Dovrei tornare all'accampamento a prendere un machete. Mi pare che l'abbiamo portato.»
«Non è necessario,» disse Elayne. Estrasse l'arma dalla fondina che portava alla cintura.
«Questo brucerà la vegetazione e aprirà un passaggio,» disse. Era un'arma più grossa di quanto apparisse nella fondina, con la canna ad ago, un po' ingombrante.
Horton la guardò. «Un laser?»
«Credo. Non lo so. Non è solo un'arma, ma anche un utensile. Sul mio pianeta d'origine, è normale. Lo portano tutti. Si può regolare, vedi...» Gli mostrò il quadrante inserito nell'impugnatura. «Un filo tagliente, un effetto a ventaglio, quello che vuoi. Ma perché me lo domandi? Ne hai uno anche tu.»
«È diverso,» disse Horton. «Un'arma piuttosto rozza, ma efficiente, se si sa come usarla. Lancia un proiettile. Una pallottola. Calibro quarantacinque. È un'arma, non un utensile.»
Elayne aggrottò la fronte. «Ho sentito parlare del principio,» disse. «Un concetto molto antico.»
«Può darsi,» disse Horton, «ma era il meglio, al tempo in cui lasciai la Terra. Nelle mani di un uomo che sa farla funzionare, è precisa e mortale. Alta velocità, enorme potenza di arresto. Attivata a polvere... nitrato, credo, forse cordite. Non ne conosco bene la chimica.»
«Ma la polvere... ma nessun composto avrebbe potuto durare per tutti gli anni che hai passato a bordo della nave. Con il tempo si sarebbe decomposto.»
Horton le lanciò un'occhiata sbigottita, sorpreso di scoprire che lei sapesse tante cose. «Non ci avevo pensato,» disse. «Ma è vero. Il convertitore di materia, naturalmente...»
«Hai un convertitore di materia?»
«Nicodemus mi ha detto di sì. In realtà non l'ho visto. Non ne ho mai visto uno, per dire la verità. I convertitori di materia non esistevano, quando venni ibernato. Vennero realizzati più tardi.»
«Un'altra leggenda,» disse Elayne. «Un'arte perduta...»
«Per niente,» disse Horton. «Tecnologia.»
Lei scrollò le spalle. «Qualunque cosa sia... è perduta. Noi non abbiamo convertitori di materia. Come ho detto, un'altra leggenda.»
«Bene,» disse Horton, «andiamo a vedere cos'è quella tua stranezza, oppure...»
«Andiamo a vedere,» disse Elayne. «Lo regolerò alla potenza minima.»
Spianò l'utensile, ed una foschia celeste se ne irradiò. Il sottobosco si dileguò con uno sbuffo ed un bizzarro mormorio, la polvere fluttuò nell'aria.
«Attenta,» ammonì Horton.
«Non preoccuparti,» rispose Elayne, con voce tagliente. «So adoperarlo.»
Ed era evidente. Aprì un sentiero, stretto e regolare, aggirando un albero. «È inutile bruciarlo. Sarebbe uno spreco.»
«La senti ancora?» chiese Horton. «La stranezza. Riesci a capire cos'è?»
«C'è ancora,» disse lei. «Ma non ho idea di cosa sia, come non l'avevo prima.»
Rinfoderò la pistola; e Horton, accendendo la torcia elettrica, la precedette nell'edificio.
L'interno era buio e polveroso. Lungo i muri c'erano mobili semisgretolati. Un animaletto lanciò uno squittio di terrore e attraversò correndo la stanza, un guizzo di movimento nell'oscurità.
«Un topo,» disse Horton.
Imperturbata, Elayne disse: «Probabilmente non era un topo. I topi appartengono alla Terra, o almeno così dicono le vecchie filastrocche. Ce n'è una che dice 'Topolino, topolino, cosa fai di buon mattino?'»
«Allora le filastrocche per bambini sono sopravvissute?»
«Alcune sì,» disse lei. «Non tutte, credo.»
Si trovarono davanti ad una porta chiusa, e Horton tese una mano, la spinse. La porta crollò, sfasciandosi sulla soglia.
Horton alzò la torcia, proiettando il raggio nell'altra stanza. E la stanza sfolgorò, un bagliore di luce dorata venne ributtato loro in faccia. Indietreggiarono vacillando di un passo, e Horton abbassò la lampada. Cautamente la rialzò e questa volta, nel bagliore della luce riflessa, videro che cosa l'aveva causata. Al centro della stanza che riempiva quasi completamente, c'era un cubo.
Horton abbassò la torcia elettrica per ridurre il riflesso, e muovendosi lentamente entrò nella stanza.
La luce della lampada, non più riflessa dal cubo, pareva venirne assorbita, risucchiata e irradiata nel suo interno, così che il cubo pareva luminoso.
Nella luce stava sospeso un essere. Un essere... era l'unica descrizione che poteva venire in mente. Era enorme: riempiva quasi il cubo, ed il corpo si estendeva oltre la loro visuale. Per un momento, vi fu un senso di massa, ma non una massa qualunque. C'era un senso di vita, un flusso che istintivamente annunciava che si trattava di una massa viva. Quella che pareva una testa era reclinata contro quello che poteva essere il petto. E il corpo... ma era un corpo? Era coperto da una complessa filigrana di incisioni. Come un'armatura, pensò Horton... come un esemplare costoso dell'arte orafa.
Al suo fianco, Elayne si lasciò sfuggire un grido soffocato di sbalordimento. «È bellissimo,» disse.
Horton si sentiva impietrito, in parte per lo stupore, in parte per la paura. «Ha una testa,» disse. «Quella maledetta cosa è viva.»
«Non si è mossa,» disse lei. «E si sarebbe mossa. Al primo tocco della luce, si sarebbe mossa.»
«Dorme,» disse Horton.
«Non credo che dorma,» ribatté Elayne.
«Deve essere viva,» disse lui. «Tu l'avevi sentita. Deve essere questa, la stranezza che sentivi. Non hai ancora idea di cosa sia?»
«No,» disse Elayne. «Non ho mai sentito parlare di niente di simile. Niente leggende. Niente storie antiche. Niente di niente. E così bella. Orribile, ma bellissima. Tutti quei disegni fini, intricati. È qualcosa che porta addosso... no, adesso vedo che non è un indumento. Le incisioni sono sulle scaglie.»
Horton cercò di seguire il contorno del corpo, ma senza riuscirvi mai. Cominciava bene, lo seguiva per un po', e poi il contorno spariva, svaniva e si dissolveva nella foschia dorata che aleggiava nel cubo, e si perdeva nelle circonvoluzioni della forma.
Avanzò di un passo per vedere meglio e venne fermato... fermato da nulla. Non c'era nulla che lo fermasse; era come se avesse urtato un muro che non poteva vedere né toccare. No, non un muro, pensò. La sua mente cercò frenetica una similitudine capace di esprimere quello che era accaduto. Ma sembrava non ne esistessero, di similitudini, perché ciò che l'aveva fermato era un niente. Alzò la mano libera, la mosse a tentoni, in avanti. La mano non trovò nulla, ma venne arrestata. Non era una sensazione fisica, qualcosa che potesse sentire o percepire. Era, pensò, come se avesse incontrato la fine della realtà, come se avesse raggiunto un luogo oltre il quale non si poteva procedere. Come se qualcuno avesse tracciato una linea e avesse sentenziato che il mondo finiva lì, che oltre non c'era nulla. Ma se questo era vero, pensò Horton, allora c'era qualcosa che non andava, perché lui poteva vedere oltre la realtà.
«Non c'è niente,» disse Elayne. «Ma deve esserci qualcosa. Possiamo vedere il cubo e l'essere.»
Horton arretrò di un passo e, in quel momento, lo splendore dorato del cubo parve dilagare ed avvolgerli entrambi, facendoli divenire una parte dell'essere e del cubo. In quella nebulosità aurea, il mondo parve dileguarsi, e per il momento rimasero soli, separati dal tempo e dallo spazio.
Elayne gli stava vicina e, abbassando lo sguardo, Horton vide la rosa tatuata sul suo seno. Tese la mano e la toccò.
«Bellissima,» disse.
«Grazie,» disse lei.
«Non ti dispiace che l'abbia notata?»
Lei scosse il capo. «Cominciavo a sentirmi delusa perché non l'avevi notata. Avresti dovuto capire che è lì per attirare l'attenzione. La rosa ha la funzione di punto focale.»
19.
Nicodemus disse: «Dai un'occhiata qui.»
Horton si chinò a guardare la linea sottile che il robot aveva scalpellato nella pietra, intorno al perimetro del quadro.
«Come sarebbe a dire?» chiese. «Non vedo niente di strano. Solo, non mi sembra che tu abbia fatto grandi progressi.»
«È proprio questo che non va,» disse Nicodemus. «Non combino niente. Lo scalpello incide la pietra per pochi millimetri. Poi la pietra s'indurisce. Come se fosse metallo, con una piccola parte della superficie trasformata in ruggine.»
«Ma non è metallo.»
«No, è proprio pietra. Ho provato in altri punti della roccia.» Tese il braccio verso la muraglia di pietra, indicando alcune scalfitture. «È così su tutta la parete. Sembra che le intemperie facciano sentire il loro effetto, ma sotto la pietra è incredibilmente dura. Come se le molecole fossero legate più strettamente di quanto dovrebbero essere per natura.»
«Dov'è Carnivoro?» chiese Elayne. «Forse lui ne sa qualcosa.»
«Ne dubito,» disse Horton.
«L'ho spedito,» disse Nicodemus. «Gli ho detto di andare all'inferno. Mi respirava sul collo e cercava di tenermi allegro...»
«Ci tiene tanto ad andarsene da questo pianeta,» disse Elayne.
«E chi non ci terrebbe?» chiese Horton.
«Mi fa tanta pena,» disse Elayne. «Siete sicuri che non ci sia modo di prenderlo a bordo... se tutti gli altri sistemi falliscono, voglio dire?»
«Non vedo come,» disse Horton. «Potremmo provare a ibernarlo, ma molto probabilmente lo uccideremmo. Tu cosa ne pensi, Nicodemus?»
«L'ibernazione è fatta su misura per gli umani,» disse il robot. «Non ho idea dell'effetto che potrebbe avere su un'altra specie. Non troppo buono, sospetto, forse pessimo. Innanzi tutto, l'anestetico che traumatizza le cellule ponendole in sospensione momentanea, fino a quando il freddo può agire. È quasi infallibile per gli umani, perché è stato creato per loro. Per agire su altre forme di vita, forse dovrebbe venire cambiato. Potrebbe essere un cambiamento minuto e sottile, immagino. E io non sono equipaggiato per operarlo.»
«Vuoi dire che morirebbe prima ancora di venire ibernato?»
«Sospetto che sarebbe proprio così.»
«Ma non potete lasciarlo qui,» disse Elayne. «Non potete andarvene e abbandonarlo.»
«Potremmo prenderlo a bordo,» disse Horton.
«No, finché ci sono io,» disse Nicodemus. «Lo ucciderei entro la prima settimana. Per i miei nervi ha lo stesso effetto della carta vetrata.»
«Anche se sfuggisse ai tuoi impulsi omicidi,» disse Horton, «a che servirebbe? Non so cos'abbia in mente Nave, ma potrebbero trascorrere secoli prima che atterrassimo di nuovo su di un pianeta.»
«Potreste fermarvi a scaricarlo.»
«Tu lo potresti,» disse Horton. «Io lo potrei. Lo potrebbe Nicodemus. Ma non Nave. Nave, a quanto sospetto, assume una prospettiva su tempi più lunghi. E cosa ti fa credere che troveremmo un altro pianeta su cui Carnivoro possa sopravvivere... fra una dozzina d'anni, fra cent'anni? Nave ha passato mille anni nello spazio, prima che trovassimo questo. Devi ricordare che Nave è un vascello dalla velocità inferiore a quella della luce.»
«Hai ragione,» disse Elayne. «Lo dimentico sempre. Durante il periodo della Depressione, quando gli umani fuggirono dalla Terra, se ne andarono in tutte le direzioni.»
«Usando navi più veloci della luce.»
«No. Navi a balzi temporali. Non domandarmi come funzionassero. Ma afferri l'idea...»
«Un barlume,» disse Hortn.
«E anche così,» disse Elayne, «viaggiarono per molti anni-luce, prima di trovare pianeti terrestri. Alcune scomparvero... in lontananze immense, nel tempo, fuori da questo universo: è impossibile saperlo. Non se ne è più saputo nulla.»
«Quindi vedi,» disse Horton, «come diventa impossibile questa faccenda di Carnìvoro.»
«Forse possiamo ancora risolvere il problema del tunnel. È quanto Carnivoro desidera veramente. È quanto desidero io.»
«Ho esaurito tutti i possibili attacchi,» disse Nicodemus. «Non ho altre idee. Non ci troviamo di fronte alla semplice situazione di un mondo chiuso da qualcuno. Hanno lavorato parecchio, per tenerlo chiuso. La durezza della pietra non è naturale. Nessuna roccia potrebbe essere così impenetrabile. L'hanno resa tale. Hanno capito che qualcuno avrebbe potuto cercare di manomettere il quadro, e hanno preso misure per impedirlo.»
«Deve esserci qualcosa, qui,» disse Horton. «Qualche ragione per bloccare il tunnel. Forse un tesoro.»
«Non si tratta di un tesoro,» osservò Elayne. «L'avrebbero portato via. Un pericolo, molto più probabilmente.»
«Hanno nascosto qui qualcosa, per tenerlo al sicuro.»
«Non credo,» disse Nicodemus. «Un giorno o l'altro potrebbero aver bisogno di recuperarlo. Potrebbero arrivare qui, naturalmente, ma poi come farebbero a portarselo via?»
«Potrebbero venire per nave,» disse Horton.
«È improbabile,» disse Elayne. «L'ipotesi più logica è che sappiano come escludere il blocco.»
«Allora credi che vi sia un modo per riuscirci?»
«Tendo a credere che possa esserci: ma questo non significa che lo troveremo noi.»
«E allora,» disse Nicodemus, «può darsi che abbiano semplicemente bloccato il tunnel perché qualcosa che sta qui non possa andarsene. Che l'abbiano isolato dal resto dei pianeti del tunnel.»
«Ma in questo caso,» chiese Horton, «che può essere? Pensi alla creatura dentro al cubo?»
«Può darsi,» disse Elayne. «Non solo imprigionata nel cubo, ma confinata sul pianeta. Una seconda linea difensiva, nel caso che riuscisse a fuggire dal cubo. Comunque, non so perché, è difficile crederlo. È tanto bella.»
«Può essere bella e pericolosa.»
«Cos'è questa creatura dentro al cubo?»
«L'abbiamo trovata Elayne ed io in un edificio della città. Una cosa racchiusa in un cubo.»
«Viva?»
«Non possiamo esserne certi, ma io credo di sì. Ne ho avuto la sensazione. Elayne l'aveva percepita.»
«E il cubo? Di cos'è fatto?»
«Una strana sostanza,» disse Elayne. «Se pure è una sostanza. Ti ferma, ma non puoi sentirla né vederla. È come se non ci fosse.»
Nicodemus cominciò a raccattare gli utensili sparsi sul fondo roccioso del sentiero.
«Ci rinunci?» chiese Horton.
«Tanto vale. Non posso fare altro. I miei utensili non intaccano la pietra. Non riesco a togliere la copertura protettiva del quadro, campo di forza o quello che è. Ci rinuncio, fino a quando qualcuno non se ne verrà fuori con una buona idea.»
«Forse, se dessimo un'occhiata al libro di Shakespeare, potremmo trovare qualcosa di nuovo,» disse Horton.
«Shakespeare non ha mai avuto idee,» disse Nicodemus. «Tutto quel che sapeva fare era prendere a calci il tunnel e snocciolare parolacce.»
«Non intendevo dire che nel libro si possa trovare qualche buona idea,» fece Horton. «Al massimo un'osservazione, le cui implicazioni erano sfuggite a Shakespeare.»
Nicodemus era dubbioso. «Può darsi,» disse. «Ma non possiamo leggere molto, con Carnivoro attorno. Vorrà sapere cosa aveva scritto Shakespeare, e certi suoi commenti non sono troppo lusinghieri nei confronti del suo vecchio amico.»
«Ma Carnivoro non c'è,» osservò Elayne. «Ha detto dove andava, quando l'hai cacciato via?»
«Ha detto che andava a fare una passeggiata. Ha borbottato qualcosa a proposito di magia. Ho avuto l'impressione, non troppo nitida, che volesse raccogliere certa roba magica... foglie, radici, cortecce.»
«Aveva già parlato di qualcosa del genere,» disse Horton. «Sembrava convinto che potessimo unire le nostre magie.»
Elayne chiese: «Avete qualche magia?»
«No,» disse Horton. «Non ne abbiamo.»
«Allora non dovete disprezzare quelli che ce l'hanno.»
«Vorresti dire che credi nella magia?»
Elayne aggrottò la fronte. «Non so bene,» disse. «Ma ho visto una magia che operava davvero, o almeno così sembrava.»
Nicodemus aveva finito di riporre gli utensili nella cassetta, e la chiuse.
«Andiamo in casa a vedere il libro,» disse.
20.
«Questo tuo Shakespeare,» disse Elayne, «mi sembra fosse un filosofo, ma abbastanza sconclusionato. Non aveva una buona base.»
«Era un uomo solo, ammalato e spaventato,» disse Horton. «Scriveva quello che gli passava per la testa, senza esaminarne la logica e la coerenza. Scriveva per se stesso. Non aveva mai pensato che qualcun altro avrebbe potuto leggere i suoi scarabocchi. Se lo avesse pensato, probabilmente sarebbe stato più circospetto.»
«Almeno era sincero,» disse lei. «Senti questo:
Il tempo ha un certo odore. Forse è solo un mio concetto, ma sono sicuro che ce l'ha. Il tempo vecchio deve essere acido e muffito, e il tempo nuovo, all'inizio della creazione, doveva essere dolce e inebriante ed esuberante. Mi chiedo se, via via che gli eventi procedono verso la fine inconoscibile, non verremo contaminati dall'odore acre del tempo vecchio, come la Terra del passato venne inquinata dai fumi delle ciminiere delle fabbriche e dai gas tossici. La morte dell'universo consisterà nell'inquinamento del tempo, nell'addensarsi dell'odore del tempo vecchio, fino a quando la vita non potrà più esistere sui corpi celesti che compongono il cosmo, e forse la materia stessa dell'universo si eroderà trasformandosi in una putredine immonda? E questa putredine ostacolerà i processi fisici in atto nell'universo al punto che cesseranno di operare, e ne risulterà il caos? E se così fosse, cosa porterà il caos? Non la fine dell'universo, necessariamente, poiché il caos in se stesso è una negazione della fisica e della chimica, e forse consentirebbe combinazioni nuove ed inimmaginabili che violerebbero tutte le concezioni precedenti, dando origine ad un disordine e ad una imprecisione che renderebbero possibili eventi attualmente impensabili per la nostra scienza.
«E continua:
Può darsi che fosse questa la situazione — stavo per dire 'un tempo', e sarebbe stata una contraddizione in termini — quando, prima che l'universo esistesse, non vi era né tempo né spazio né referenti per quella grande massa di qualcosa che attendeva di esplodere, perché il nostro universo potesse incominciare ad esistere. È impossibile per la mente umana, naturalmente, immaginare una situazione in cui il tempo e lo spazio non c'erano, se non in potenza nell'uovo cosmico, che già di per sé è un mistero impossibile da visualizzare. Eppure, intellettualmente, si sa che tale situazione è esistita, se il nostro pensiero scientifico è esatto. Eppure, si propone egualmente il dubbio... se non c'erano il tempo e lo spazio, in quale mezzo esisteva l'uovo cosmico?
«È provocatorio,» disse Nicodemus. «Tuttavia non ci fornisce informazioni, niente di fondamentale. Quest'uomo scrive come se noi vivessimo in un vuoto. Questa roba avrebbe potuto scriverla dovunque. Solo di tanto in tanto accenna a questo pianeta, con allusioni malevole al Carnivoro.»
«Cercava di dimenticare questo pianeta,» disse Horton. «Cercava di chiudersi in se stesso, per poterlo ignorare. In realtà, tentava di creare uno pseudo-mondo che gli desse qualcosa di diverso da questo pianeta.»
«Non so perché,» disse Elayne, «ma pensava molto all'inquinamento. Ecco un altro brano che aveva scritto in proposito:
L'emergere dell'intelligenza, ne sono convinto, tende a sbilanciare l'ecologia. In altre parole, l'intelligenza è la grande inquinatrice. Solo quando un essere comincia a modificare il suo ambiente, la natura viene gettata nel disordine. Fino a che questo non avviene, vi è un sistema di freni e di equilibri operante in modo logico e comprensibile. L'intelligenza distrugge e modifica i freni e gli equilibri, anche quando cerca, con molto impegno, di lasciarli come sono. Non esiste un'intelligenza capace di vivere in armonia con la biosfera. Può crederlo e vantarsene, ma la sua mentalità le dà un vantaggio, ed è sempre presente la pulsione ad impiegare tale vantaggio per suo beneficio egoistico. Quindi, sebbene l'intelligenza possa essere un importantissimo fattore di sopravvivenza, è un fattore a breve termine, e l'intelligenza finisce per rivelarsi invece come la grande distruttrice.
Elayne sfogliò le pagine, scrutando rapidamente le annotazioni. «È così piacevole leggere la vecchia lingua,» disse. «Non ero sicura che ci sarei riuscita.»
«Shakespeare non ci sapeva fare molto, con la penna,» disse Horton.
«Comunque è una lettura interessante,» disse lei, «quando riesci a trovare il bandolo. Ecco una cosa strana. Parla dell'ora di Dio. Che strana espressione.»
«Ma è vero,» disse Horton. «Almeno, qui è vero. Avrei dovuto parlartene. È qualcosa che si protende dallo spazio e ti afferra e ti squarcia. Ma Nicodemus fa eccezione. Nicodemus reagisce appena. Sembra che non abbia origine su questo pianeta. Carnivoro dice che, secondo Shakespeare, proveniva da un punto lontano nello spazio. Cosa scrive?»
«A quanto sembra, ha scritto dopo una lunga esperienza,» disse Elayne. «Ecco:
Sento di poter forse venire a patti con il fenomeno che ho chiamato, in mancanza di un termine migliore, l'ora di Dio. Carnivoro, poveraccio, ne ha ancora paura, e suppongo di temerla anch'io, benché ormai, dopo aver vissuto qui per tanti anni e dopo aver scoperto che non c'è modo di sottrarvisi o di isolarsi, sono giunto ad una sorta di accettazione, considerandola come qualcosa d'ineluttabile, ma anche come qualcosa che può, per un certo tempo, portare un uomo al di fuori di se stesso e metterlo in rapporto con l'universo, anche se, per dire la verità, nel caso esistesse una possibilità di scelta ci sarebbe da esitare ad esporsi così spesso a tale contatto.
Il guaio è, naturalmente, che si fa l'esperienza di troppe cose: molte, anzi no, tutte, non si comprendono, e dopo l'evento si rimane aggrappati ad esso, e ci si domanda inorriditi se la mentalità umana è capace di comprenderne più di una minima parte. Talvolta mi sono chiesto se si tratta di un voluto meccanismo d'apprendimento; ma se lo è, si tratta di un insegnamento eccessivo, di massicci testi eruditi scagliati addosso ad un allievo stupido che non ha ancora le basi rudimentali di ciò che gli viene insegnato, ed è quindi incapace di afferrare i principi necessari per una comprensione anche vaga.
Me lo sono chiesto, ho detto, ma non mi sono mai spinto oltre. Con il passare del tempo, mi sono convinto sempre di più che nell'ora di Dio io facevo l'esperienza di qualcosa non destinato a me, né agli umani... che l'ora di Dio, qualunque cosa sia, emani da una sorta di entità del tutto ignara della possibile esistenza degli umani, e pronta ad abbandonarsi ad una risata cosmica se apprendesse l'esistenza di una cosa quale io sono. Io mi trovo, ne sono convinto, semplicemente preso entro la rosa del colpo di fucile, bersagliato da pallini dispersi che erano destinati a capi di selvaggina molto più grossi.
Ma non appena me ne sono convinto, mi sono reso conto, acutamente, che la fonte dell'ora di Dio, almeno in modo marginale, si era accorta di me ed era riuscita a scavare profondamente nella mia memoria e nella mia psiche, perché talvolta, anziché venire spalancato al cosmo, venivo spalancato a me stesso, al passato, e per un periodo di durata ignota rivivevo, con certe distorsioni, eventi del passato che quasi invariabilmente erano di una sgradevolezza estrema, momenti strappati al limo della mia mente, in cui erano rimasti profondamente sepolti, e dove avrei voluto lasciarli nascosti, per la vergogna ed il rimorso, ma che ora venivano dissepolti e spiegati davanti a me, mentre io mi contorcevo per l'imbarazzo e l'umiliazione, costretto a rivivere certi episodi della mia vita che avevo nascosto, non soltanto agli altri, ma anche a me stesso. E peggio ancora, certe fantasie che nei momenti incauti avevo sognato nel segreto della mia anima, inorridendo quando avevo scoperto cosa stavo sognando. Anche queste fantasie vengono strappate urlanti al mio inconscio, vengono presentate davanti a me in una luce spietata. Non so cosa sia peggio, se aprirmi all'universo, o la rivelazione dei miei segreti.
Perciò ho capito che, inspiegabilmente, l'ora di Dio si era accorta di me... forse non proprio di me come persona, ma come un grumo di materia oscena e disgustosa: e mi aveva scostato, in un gesto d'irritazione per la mia presenza, senza perdere tempo a farmi del male, senza schiacciarmi come io schiaccerei un insetto, ma semplicemente spingendomi da parte, o cercando di farlo. E da questo, stranamente, io ho tratto un po' di coraggio, perché se l'ora di Dio si è accorta di me, sia pure marginalmente, allora mi sono detto che non costituisce un pericolo. E se bada così poco a me, allora senza dubbio sta cercando una preda più grossa: e l'aspetto più terrificante della situazione è che, mi sembra, questa preda deve essere qui, su questo pianeta. E non solo su questo pianeta, ma su questo suo particolare segmento... deve essere molto vicina a noi.
Mi sono stillato il cervello nel tentativo d'immaginare cosa può essere, e se è ancora qui. L'ora di Dio era destinata alla popolazione che abitava la città ora deserta? E in tal caso, perché l'entità responsabile dell'ora di Dio non sa che se ne è andata? Più ci penso, e più mi convinco che il bersaglio non era la popolazione della città, che l'ora di Dio è diretta a qualcoa che è ancora qui. Cerco di scoprire cosa può essere, e non ne ho idea. Sono ossessionato dal pensiero di avere il bersaglio sotto gli occhi, tutti i giorni, eppure non lo riconosco. È una sensazione frustrante ed inquietante. Mi sento sbilanciato e stupido e, qualche volta, abbastanza spaventato. Se un uomo può essere tanto lontano dal contatto con la realtà, tanto cieco ad essa, tanto insensibile a ciò che lo circonda, allora in verità la razza umana è più incapace e debole di quanto abbiamo pensato.
Quando arrivò alla fine di ciò che aveva scritto Shakespeare, Elayne alzò la testa dal volume e guardò Horton. «Sei d'accordo?» chiese. «Hai avuto le stesse reazioni?»
«Ci sono passato solo due volte,» rispose Horton. «Finora, la somma totale delle mie reazioni è un immenso sgomento.»
«Shakespeare dice che è ineluttabile. Dice che non è possibile sottrarvisi.»
«Carnivoro si nasconde,» disse Nicodemus. «Si mette al coperto. Dice che non è così orrendo, quando si è al coperto.»
«Lo saprai tra qualche ora,» disse Horton. «Ho l'impressione che sia meno terribile, se non cerchi di opporre resistenza. È impossibile descriverla. Bisogna farne l'esperienza, per capire.»
Elayne rise, un po' nervosamente. «Non vedo l'ora,» disse.
21.
Carnivoro arrivò un'ora prima del tramonto. Nicodemus aveva tagliato le bistecche e stava accosciato a farle rosolare. Indicò un enorme pezzo di carne che aveva deposto su uno strato di foglie strappate a un albero.
«È per te,» disse. «Ti ho scelto il taglio migliore.»
«Nutrimento,» disse Carnivoro, «è una cosa di cui ho gran bisogno. Ti ringrazio dal profondo delle viscere.»
Raccolse il pezzo di carne con tutte e due le mani e si acquattò davanti al mucchio di legna su cui sedevano gli altri due. Se lo portò alla bocca e l'addentò. Il sangue gli scorse sui baffi.
Masticando energicamente, alzò gli occhi verso i suoi due compagni.
«Non vi disturbo, spero,» disse, «con il mio mangiare indecoroso. Sono grandemente affamato. Forse dovevo aspettare?»
«Ma no,» disse Elayne. «Mangia pure. Le nostre bistecche saranno pronte fra poco.» Affascinata e nauseata, guardava il sangue che scendeva sui tentacoli di Carnivoro.
«Ti piace la buona carne rossa?» chiese lui.
«Mi ci abituerò,» disse lei.
«Non è necessario,» disse Horton. «Nicodemus può trovarti qualcosa d'altro.»
Elayne scosse il capo. «Quando si viaggia da un mondo all'altro, si incontrano molte strane usanze. Alcune possono addirittura apparire scandalose al tuo pregiudizio. Ma nel mio modo di vivere, il pregiudizio non può esistere. Bisogna avere una mentalità aperta e ricettiva... e bisogna conservarla.»
«Ed è per questo che mangi la carne insieme a noi?»
«Be', all'inizio è stato così, e credo che lo sia ancora, in una certa misura. Ma penso che, senza troppo sforzo, potrei finire per prediligere la carne.» Poi, a Nicodemus: «Puoi cuocere bene la mia bistecca?»
«Già fatto,» disse Nicodemus. «La sua l'ho messa a cuocere prima di quella di Carter,»
«Mi è stato detto molte volte, dal mio vecchio amico Shakespeare,» disse Carnivoro, «che sono un cafone irrimediabile, che non conosco le buone maniere e ho abitudini schifose. Per dirvi la verità, sono devastato da tale valutazione, ma ormai sono troppo vecchio per cambiare modo di vivere, e in nessun caso voglio diventare un damerino affettato. Se sono un cafone, ci terrò a esserlo, perché la cafonaggine è una situazione piacevole.»
«Sei un cafone, sicuro,» disse Horton. «ma se ti rende felice, non badare a noi.»
«Ti sono riconoscente per la tua graziosità,» disse Carnivoro. «E felice di non dover cambiare. Mi è difficile cambiare.» E disse a Nicodemus: «Hai quasi finito con il tunnel?»
«Non solo non ho quasi finito,» disse Nicodemus, «ma ormai sono quasi sicuro che non si può far niente.»
«Vuoi dire che non puoi ripararlo?»
«È esattamente quello che voglio dire, a meno che qualcuno se ne venga fuori con un'idea geniale.»
«Oh, be',» disse Carnivoro, «sebbene la speranza scaturisce sempre nelle mie viscere, non sono sorpreso. Oggi ho camminato a lungo, comunicando con me stesso, e mi dico, che non devo aspettarmi troppo. Mi dico che la vita non è dura con me e ho avuto molte felicità, e che dato questo non vomiterò di fronte ad eventi sbagliati. E poi cerco alternative nella mia mente. Mi è sembrato che potevo tentare con la magia. Tu mi hai detto, Carter Horton, che non ti fidi della magia e non la capisci. Tu e Shakespeare siete uguali. Lui si fa molte beffe della magia. Dice che non è buona a niente. Forse la nostra nuova compatriota non la pensa così.» E guardò Elayne con aria implorante.
Lei disse: «Hai provato la tua magia?»
«Sì,» rispose Carnivoro. «Ma contro la risata sprezzante di Shakespeare. Le risate, mi dico, la smussano, la riducono a niente.»
«Non so,» disse Elayne. «Ma sono sicura che bene non ne fanno.»
Carnivoro annuì con aria saggia. «Allora mi dico, se la magia fallisce, se il robot fallisce, se tutto il resto fallisce, io cosa faccio? Resto su questo pianeta? Sicuramente no, dico. Sicuramente i miei nuovi amici troveranno un posto per me quando da questo pianeta s'involano nello spazio.»
«Adesso fai conto su di noi,» disse Nicodemus. «Avanti, abbaia pure. Rotolati per terra e scalcia e strilla. Non ti servirà a niente. Non possiamo ibernarti e...»
«Almeno,» disse Carnivoro, «sono con amici. Fino a che muoio, sono con amici e lontano di qui. Occupo poco posto. Mi rannicchio in un angolo. Mangio molto poco. Non dò fastidio. Terrò la bocca chiusa.»
«Magari,» disse Nicodemus.
«Spetta a Nave decidere,» disse Horton. «Ne parlerò con Nave. Ma non ho molte speranze.»
«Voi comprendete,» disse Carnivoro, «che io sono un guerriero. Per un guerriero c'è un modo solo di morire, nella sanguinosità del combattimento. È così che voglio morire io. Ma forse non sarà così. Al fato m'inchino. Ma non voglio morire qui, senza nessuno che mi vede morire, che pensa, povero Carnivoro, se ne è andato; a trascinare i miei ultimi giorni nell'odiosa nullità di questo posto dimenticato dal tempo...»
«Ecco,» disse Elayne, all'improvviso. «Il tempo. Ecco cosa dovevo pensare, fin dal primo momento.»
Horton la fissò, sbalordito. «Il tempo? Cosa stai dicendo? Cosa c'entra il tempo?»
«Il cubo,» disse lei. «Il cubo che abbiamo trovato nella città. Con l'essere chiuso dentro. Quel cubo è tempo congelato.»
«Tempo congelato!» esclamò Nicodemus. «Il tempo non può essere congelato. Si congela la gente e i viveri e altre cose. Ma il tempo no.»
«Tempo arrestato,» disse Elayne. «Vi sono storie... leggende... dicono che è possibile. Il tempo fluisce. Si muove. Arrestane il flusso, il movimento. Niente passato, niente futuro. Solo il presente. Un presente eterno. Un presente esistente dal passato e incastonato nel futuro che ormai è divenuto presente.»
«Parli come lo Shakespeare,» borbottò Carnìvoro. «Sempre a sputare scemenze. Sempre bla, bla, bla. A dire cose senza senso. Solo per ascoltarsi parlare.»
«Non è affatto così,» insistette Elayne. «Vi sto dicendo la verità. Su molti pianeti, vi sono leggende che dicono che il tempo può venire manipolato, che esistono modi per riuscirvi. Nessuno sa dire chi lo fa...»
«Forse i costruttori dei tunnel.»
«Non c'è mai un nome. Le leggende dicono soltanto che è possibile.»
«Ma perché proprio qui? Perché quell'essere sarebbe congelato nel tempo?»
«Forse per attendere,» disse Elayne. «Forse perché sia qui quando se ne presenterà la necessità. Forse coloro che chiusero l'essere nel tempo non sapevano quando la necessità si sarebbe presentata...»
«E perciò ha atteso nei secoli,» disse Horton, «e dovrà attendere altri millenni...»
«Ma non capisci?» disse lei. «Secoli o millenni, è lo stesso. Congelato com'è, non ha esperienza del tempo. Esiste e continua ad esistere entro quel microsecondo...»
Scoccò l'ora di Dio.
22.
Per un momento, Horton venne scagliato nell'universo, con lo stesso senso nauseante d'infinito che aveva già provato: poi i frammenti dispersi si ricomposero e l'universo si restrinse, e la sensazione di estraneità cessò. C'erano di nuovo il tempo e lo spazio coordinati, nettamente, ed egli sapeva dov'era: tuttavia gli pareva di essersi sdoppiato, sebbene quella duplicità sembrasse non fastidiosa, persino naturale.
Si accovacciò sul grasso terriccio nero e tepido, tra due filari di piante. Davanti a lui, i filari continuavano, due linee verdi con una striscia nera in mezzo. A sinistra e a destra, c'erano innumerevoli altre linee verdi parallele, inframmezzate da strisce nere... ma le strisce nere doveva immaginarle, perché le linee verdi si fondevano e, da entrambi i lati, c'era soltanto uno scuro tappeto verde.
Accovacciato, con il tepore del suolo sotto i piedi nudi, girò la testa e dietro di lui il tappeto verde finiva, molto lontano, ai piedi d'una struttura torreggiante, così alta che la cima si perdeva in una bianca nube fioccosa, contro lo sfondo azzurro del cielo.
Tese le sue mani di bambino e raccolse i fagioli che pendevano, pesanti, dalle piante, usando la sinistra per scostare i rametti, per arrivare ai baccelli aggrovigliati nel fogliame, cogliendoli con la destra e lasciandoli cadere in un cesto semipieno posato sulla striscia di terra nera, proprio davanti a lui.
Poi vide ciò che prima non aveva notato: a intervalli regolari, tra i filari, più avanti, attendevano altri cesti vuoti, in attesa di essere riempiti, piazzati lì in base ad un calcolo approssimativo che stabiliva quando un cesto sarebbe stato pieno, e ne sarebbe divenuto necessario un altro. E dietro di lui c'erano altri canestri, già riempiti, in attesa del veicolo che più tardi sarebbe passato tra i filari a ritirarli.
C'era qualcosa d'altro che prima non aveva osservato: non era solo, nel campo, ma c'erano molti altri con lui, quasi tutti bambini, sebbene vi fossero anche vecchi, uomini e donne. Alcuni erano più avanti di lui, perché erano raccoglitori più svelti, o forse meno scrupolosi, e altri erano più indietro.
Le nubi screziavano il cielo, pigre nubi lanose, ma in quel momento nessuna copriva il sole, e il sole brillava con un calore ardente che lui sentiva attraverso la camicia sottile. Strisciava lungo il filare, raccogliendo, coscienziosamente, lasciando i baccelli più piccoli a maturare per un altro paio di giorni, e spiccando tutti gli altri... con il sole che gli batteva sulla schiena, il sudore che sgorgava dalle ascelle e scorreva giù per le costole, e sotto i piedi la morbidezza e il tepore del suolo ben coltivato. La sua mente era sul neutro, aggrappata al presente, non avanzava né arretrava nel tempo, contenta del momento attuale, come se lui fosse un organismo semplice che assorbiva il calore e, in qualche strano modo, traesse nutrimento dal suolo, come lo avevano tratto i fagioli che raccoglieva.
Ma c'era qualcosa di più. C'era il ragazzino, che aveva nove o dieci anni, e c'era anche il Carter Horton attuale, una seconda persona apparentemente invisibile, che si teneva in disparte, od era situata altrove, ed osservava il ragazzino che era stato un tempo, e sentiva e pensava e provava ciò che aveva conosciuto un tempo, quasi fosse quel bambino. Ma sapeva più del bambino, sapeva ciò che quello non poteva neppure immaginare, poiché era conscio degli anni e degli eventi che stavano tra quell'ampio campo di fagioli e un tempo lontano nello spazio mille anni-luce. Sapeva, come il ragazzino non poteva sapere, che uomini e donne, nel grande edificio lontano in fondo al campo, e in molte altre strutture simili sparse nel mondo, avevano riconosciuto i semi di un'altra crisi e già allora preparavano la soluzione.
Strano, pensò, che pur avendo una seconda occasione, la razza umana dovesse comunque precipitare verso le crisi e rendersi conto finalmente che l'unica soluzione stava in altri possibili pianeti di altri ipotetici sistemi solari, dove gli uomini avrebbero potuto partire di nuovo da zero, e alcuni tentativi sarebbero falliti, alcuni, forse, sarebbero riusciti.
Meno di cinque secoli prima di quel mattino nel campo di fagioli, la Terra si era bloccata, non in una guerra, ma in un collasso economico mondiale. Quando il sistema del profitto e della libera iniziativa s'era sfasciato per le crepe già apparse all'inizio del ventesimo secolo, e una larga parte delle risorse fondamentali era stata ormai consumata, e la popolazione aumentava, e l'industria introduceva sempre nuove macchine che permettevano di fare a meno della mano d'opera, e le scorte di viveri non bastavano più a nutrire gli abitanti del mondo... erano venute la carestia, la disoccupazione, l'inflazione, e la mancanza di fiducia nel governo del mondo. Il governo era scomparso; l'industria, le comunicazioni e il commercio si erano arrestati e, per diverso tempo, c'erano stati l'anarchia ed il caos.
Da quell'anarchia era nato un altro modo di vivere, realizzato, non dai politici e dagli statisti, ma dagli economisti e dai sociologi. Dopo pochi secoli, però, quella società nuova aveva presentato i sintomi che avevano indotto gli scienziati a chiudersi nei laboratori, gli ingegneri ad impegnarsi ai tavoli da disegno per progettare le astronavi destinate a trapiantare la razza umana nello spazio. I sintomi non erano stati interpretati erroneamente, si disse il secondo Horton, l'Horton invisibile, perché proprio quel giorno (che giorno? quello o un altro?) Elayne gli aveva detto dello sfacelo finale del modo di vita che i sociologi e gli economisti avevano costruito con tanta meticolosità.
La Terra era troppo malata, pensò, troppo svilita, troppo sfruttata, troppo contaminata dagli errori dell'umanità, per poter sopravvivere.
Sentiva il suolo tra le dita dei piedi, e il lieve soffio di brezza che spirava sul campo e gli investiva la schiena intrisa di sudore e riscaldata dal sole. Lasciò cadere nel cesto la manciata di fagioli che aveva colto, e lo spinse avanti, aggobbendosi lungo il filare per raggiungere altre piante, e sembrava che quel filare non finisse mai. Il cesto, vide, era quasi pieno. Poco più avanti ce n'era uno vuoto.
Cominciava a sentirsi stanco. Guardò il sole e vide che mancava un'ora e più a mezzogiorno, quando sarebbe venuto il carro-cucina. Mezz'ora per il pranzo, pensò, e poi avrebbe ripreso la raccolta fino al calar del sole. Tese le dita della mano destra, flettendole per liberarle dai crampi e dalla stanchezza. E vide che aveva le dita macchiate di verde.
Era stanco e accaldato e cominciava ad avere fame, e la giornata era ancora lunga, ma doveva continuare la raccolta, come centinaia d'altri, i giovanissimi ed i vecchi, impegnati nei lavori che erano in grado di fare, lasciando disponibili per altri compiti i lavoratori più esperti e capaci. Si accosciò e guardò quel verde. Non soltanto i fagioli, ma molte altre colture stagionali, producono quello che, al momento giusto, deve essere raccolto per nutrire la gente della torre.
Nutrire la gente della torre, pensò Horton (l'invisibile, incorporeo Horton), nutrire la tribù, il clan, la comunità. La mia gente. La Nostra Gente. Uno per tutti e tutti per uno. La torre altissima, slanciata fin oltre le nubi, in modo che occupi poco spazio alla base, una città perpendicolare in modo che resti il terreno da coltivare, per sfamare gli abitanti. Gente affollata in una torre perché la torre, sebbene enorme, deve essere la più piccola possibile.
Usa con cura. Fai durare le cose. Impara a rinunciare. Coltiva e raccogli il cibo, con fatica, perché c'è poco carburate. Mangia carboidrati perché per ottenerli occorre meno energia che per produrre le proteine. Costruisci e fabbrica per la durata, non per l'obsolescenza; ora che il sistema del profitto non esiste più, l'obsolescenza è divenuta non soltanto criminosa, ma anche ridicola.
Poiché l'industria non c'era più, pensò, coltivavamo da soli il nostro cibo, ci lavavamo la nostra roba. Tiravamo avanti... tiravamo avanti. Eravamo tornati ai modelli tribali, vivendo in un monolito anziché in un gruppo di rozze capanne. Disprezzavamo i tempi andati, il sistema del profitto, l'etica del lavoro, l'iniziativa privata, e intanto c'era in noi un malessere... il malessere dell'umanità. Per quanto ci sforzassimo, si disse, c'era un malessere in noi. Forse la razza umana non può vivere in armonia con l'ambiente? Per sopravvivere, ogni dato numero di millenni deve avere pianeti nuovi da violentare? Siamo condannati a muoverci come uno sciame di locuste attraverso la galassia, attraverso l'universo? La galassia, il cosmo, sono destinati a subirci? Oppure verrà il giorno in cui l'universo si ribellerà, irritato, e ci schiaccerà... spinto non dall'ira ma dall'irritazione? C'è in noi una certa grandezza, pensò, ma è una grandezza distruttiva ed egoistica. La Terra è durata per due milioni d'anni dopo l'avvento della nostra specie, ma in quasi tutti quegli armi non eravamo efficienti quanto lo siamo ora... abbiamo impiegato molto tempo a realizzare il nostro pieno potenziale di distruzione. Ma ricominciando, come facciamo adesso, su altri pianeti, quanto tempo occorrerà per introdurre il virus mortale dell'umanità... quanto tempo impiegherà la malattia per compiere il suo corso?
Il bambino scostò i rametti e allungò la mano per cogliere i fagioli. Un verme aggrappato alle foglie perse l'equilibrio e cadde. Toccò il suolo e si raggomitolò come una palla. Quasi senza pensare, quasi senza interrompere il suo lavoro, il bambino spostò un piede, lo sollevò per schiacciare il verme, premendolo con forza nel suolo.
Una nebbia grigia cancellò il campo di fagioli, e il grande monolito che imcombeva, alto un miglio, in lontananza, e là, librato nel cielo, cinto dalla nebbia vaporosa che gli turbinava intorno in tentacoli sottili, c'era il teschio di Shakespeare, e guardava Horton... senza malignità, senza ghigni: lo guardava cameratescamente, come se esistesse ancora la carne, come se non esistesse la barriera della morte.
Horton si sorprese a parlare al teschio. «Come va, vecchio compagno?» Ed era strano, perché Shakespeare non era mai stato suo compagno, se non perché apparteneva all'umanità, perché entrambi appartenevano alla strana, terribile razza di esseri che era proliferata su di un pianeta e poi, spinta dalla disperazione più che dallo spirito d'avventura, si era lanciata tempestosamente nella galassia... andando chissà quanto lontano, perché in quel momento, nessun membro della razza sapeva con certezza fin dove si fossero spinti gli altri.
«Come va, vecchio compagno?» E anche questo era strano, perché Horton sapeva che non era quello il modo in cui avrebbe parlato abitualmente... era un po' come se stesse usando una versione puerile del linguaggio che il vero Shakespeare aveva adottato nelle sue tragedie e nelle sue commedie. Come se lui non fosse il vero Carter Horton, ma una versione puerile, che esprimeva sentimenti banali per un simbolismo da lui sognato un tempo. Si infuriò, interiormente, contro se stesso, perché era quel che non era; ma per quanto si sforzasse, non riusciva a ritrovarsi. La sua psiche era così aggrovigliata al bambino che schiacciava il verme e a un teschio disseccato, che egli non trovava la strada per tornare a se stesso.
«Come va, vecchio compagno?» chiese. «Tu dici che siamo tutti perduti. Ma perduti dove? Perduti come? Perché perduti? Hai scavato alle radici la nostra perdizione? La portiamo nei nostri geni, oppure ci è accaduto qualcosa? Siamo perduti noi soli, o vi sono altri come noi? La perdizione è una caratteristica innata dell'intelligenza?»
Il teschio gli rispose, sbattendo le mascelle d'osso. «Noi siamo perduti. È tutto ciò che ho detto. Non ne ho scavato la filosofia. Siamo perduti perché abbiamo perduto la Terra. Siamo perduti perché non sappiamo dove siamo. Siamo perduti perché non sappiamo trovare la via del ritorno. Non c'è più posto per noi. Percorriamo strane vie, in terre più strane, e lungo il cammino non c'è nulla che abbia senso. Una volta conoscevamo qualche risposta, perché sapevamo quali domande formulare, ma ora non possiamo trovare le risposte, perché non conosciamo le domande. Quando altri, nella galassia, cercano di stabilire un contatto con noi, non sappiamo cosa dire. In questa situazione, siamo idioti balbettanti, e non abbiamo perduto soltanto la strada, ma anche il buon senso. Là, nel tuo campo di fagioli, sebbene avessi solo dieci anni, avevi il senso del tuo scopo, sapevi dove avresti potuto andare, ma adesso non lo hai né lo sai più.»
«No,» disse Horton. «Credo di non averlo più.»
«E di non saperlo, anche?»
«E di non saperlo.»
«È così. Vuoi qualche risposta, vero?»
«Che risposta?»
«Di qualunque genere. Una risposta qualunque è meglio di niente. Vai a chiederlo allo Stagno.»
«Lo Stagno? E cosa potrebbe dirmi? È soltanto una massa d'acqua sudicia.»
«Non è acqua. Tu sai che non è acqua.»
«È vero. Non è acqua. Tu sai cos'è?»
«No, non lo so,» disse Shakespeare.
«Tu gli parlavi?»
«Non ho mai osato. Sostanzialmente, sono un vigliacco.»
«Avevi paura dello Stagno?»
«Non è questo. Avevo paura di quel che avrebbe potuto dirmi.»
«Eppure sapevi qualcosa dello Stagno. Immaginavi che avrebbe potuto parlarti. Eppure non lo hai mai scritto.»
«Come lo sai?» chiese Shakespeare. «Non hai ancora letto tutto ciò che ho scritto. Ma hai ragione: non ho mai scritto nulla, a proposito dello Stagno: solo che puzzava. E non ne ho mai scritto perché non volevo pensarci. Mi dava una grande inquietudine. Era più di uno stagno. Anche se fosse stato soltanto acqua, sarebbe stato più di uno stagno.»
«Ma perché l'inquietudine?» chiese Horton. «Perché ti dava questa sensazione?»
«L'uomo è fiero del suo intelletto,» disse Shakespeare. «Si gloria della sua ragione e della sua logica. Ma sono cose nuove, comparse solo in tempi recenti. Prima, aveva qualcosa d'altro: chiamala intuizione, dalle tutti i nomi che vuoi. I nostri antenati preistorici la possedevano, e se ne servivano. Loro sapevano, ma non potevano dirti come lo sapevano. Sapevano di cosa si doveva aver paura e questo, in fondo, è indispensabile per ogni specie che vuole sopravvivere. Di cosa aver paura, che cosa evitare, che cosa si deve lasciare in pace. Se hai questa facoltà, vivi; se non l'hai, no.»
«È il tuo spirito che mi parla? La tua ombra? Il tuo fantasma?»
«Prima dimmi questo,» fece il teschio, sbattendo le mascelle cui mancavano due denti. «Prima dimmi cos'è la vita e cos'è la morte, e poi ti risponderò a proposito dello spirito e dell'ombra.»
23.
Il teschio di Shakespeare era appeso sopra la porta, e li guardava ghignando... e un momento prima, si disse Horton, non ghignava. Aveva parlato con lui, da uomo a uomo. Era stato strano, ma non orribile, e non aveva ghignato. I due denti mancanti erano solo due denti mancanti, ma adesso quell'assenza aveva qualcosa di macabro, di sconvolgente. Era sceso il crepuscolo, e il guizzare del fuoco, riflettendosi sull'osso levigato, dava l'impressione che le mascelle si muovessero ancora, conferiva uno scintillio all'oscurità fonda delle orbite.
«Bene,» disse Nicodemus, guardando le bistecche, «questa faccenda dell'ora di Dio mi ha rovinato la cucina. Le fette di carne sono bruciacchiate.»
«Non importa,» disse Horton. «Preferisco la carne al sangue, ma non importa.»
Accanto a Horton, Elayne sembrava uscire da una trance. «Perché non me l'avevi detto?» chiese in tono d'accusa. «Perché non mi avevi spiegato com'era?»
«È impossibile,» disse Carnivoro. «Come puoi descrivere il rattrappirsi delle viscere...»
«Com'è stato?» chiese Horton.
«Spaventoso,» disse lei. «Ma anche meraviglioso. Come se qualcuno ti avesse portato in vetta ad una montagna cosmica, con l'universo spiegato davanti a te... tutto lo splendore e l'incanto e tutta la tristezza. Tutto l'amore e l'odio, tutta la pietà e l'indifferenza. Tu sei lì, fragile e travolto dal vento che investe i mondi e, all'inizio, ti senti solo e confuso, e hai l'impressione di essere dove non dovresti, ma poi ricordi che non aspiravi ad essere lì, ci sei stato trasportato, e allora tutto sembra giusto. Sai cosa stai guardando, e non è affatto come avresti immaginato... se pure hai mai immaginato di vederlo, e naturalmente non lo hai mai pensato. Stai lì e lo guardi, dapprima senza capire e poi, lentamente, cominci a comprendere un poco, come se qualcuno ti dicesse di che si tratta. E alla fine capisci di più, usando verità di cui non conoscevi l'esistenza, e sei quasi pronto a dire a te stesso che è così, dunque, e poi, prima che tu lo dica, è tutto scomparso. Proprio quando senti di stare per afferrare in parte il significato, tutto è sparito.»
Era così, pensò Horton... o almeno era stato così, le altre volte. Ma questa volta, per lui era stato diverso, come aveva scritto Shakespeare: poteva essere diverso. E la logica, la ragione di quella differenza?
«L'ho cronometrato, questa volta,» disse Nicodemus. «È durato un po' meno di un quarto d'ora. È sembrato tanto tempo?»
«Di più,» disse Elayne. «Sembrava che durasse per sempre.»
Nicodemus guardò Horton con fare interrogativo. «Non saprei,» disse Horton. «Non ho avuto un'impressione chiara del tempo.»
Il dialogo con Shakespeare non era durato troppo a lungo, ma quando cercò di calcolare con la memoria per quanto tempo era stato nel campo dei fagioli, non fu neppure in grado di formulare un'ipotesi.
«Per te è stato lo stesso?» chiese Elayne. «Hai visto quello che ho visto io? Era questo che non sapevi descrivere?»
«Questa volta è stato diverso. Sono tornato alla mia infanzia.»
«Tutto lì?» chiese Elayne. «Solo un ritorno all'infanzia?»
«Tutto lì,» disse Horton. Non se la sentiva di parlare del dialogo con il teschio. Sarebbe suonato strano e, molto probabilmente, Carnivoro si sarebbe fatto prendere dal panico. Era meglio lasciar stare, decise.
«Quello che voglio,» disse Carnivoro, «è che questa ora di Dio ci dice come riparare il tunnel. Tu sei sicuro,» disse a Nicodemus, «di non potere fare altro.»
«Non so immaginare cosa potrei fare,» disse il robot. «Ho cercato di staccare il coperchio dai comandi, e sembra impossibile. Ho cercato di staccare il quadro con lo scalpello, e quella roccia è più dura dell'acciaio. Lo scalpello rimbalza. Non è roccia normale. Non so come, è stata metamorfosata.»
«Possiamo provare la magia. Tra tutti e quattro...»
«Non conosco nessuna magia,» gli disse Nicodemus.
«Neppure io,» disse Horton.
«Io ne conosco un po',» disse Carnivoro. «E forse anche la signora.»
«Che specie di magia, Carnivoro?»
«Magia delle radici, magia delle erbe, magia della danza.»
«Sono primitive,» disse Elayne. «Hanno scarsi effetti.»
«Per sua stessa natura, ogni magia è primitiva,» disse Nicodemus. «È l'appello dell'ignorante a potenze di cui si sospetta l'esistenza, ma di cui nessuno è sicuro.»
«Non necessariamente,» disse Elayne. «So di popoli che hanno magie efficaci... magie su cui si può contare. Basate, credo, sulla matematica.»
«Ma non sul nostro tipo di matematica,» disse Horton.
«Infatti. Non sul nostro tipo di matematica.»
«Però non conosci questa magia,» disse Carnivoro. «Non conosci questa matematica.»
«Mi dispiace, Carnivoro. Non ne so nulla.»
«Avete diprezzato la mia magia,» ululò Carnivoro. «Tutti voi mi avete depresso crudelmente. Della mia semplice magia, di foglie e radici e cortecce, voi vi fate beffe con tranquilla decisione. Poi mi dite di un'altra magia che può funzionare, che può aprire il tunnel, ma non la conoscete.»
«Ti ripeto che mi dispiace,» disse Elayne. «Vorrei conoscere quella magia, per aiutarti. Ma noi siamo qui, e quella è altrove, ed anche se potessi andare a cercarla, e trovare coloro che la usano, non sono certa che riuscirei ad ottenere il loro interessamento. Perché, senza dubbio, saranno individui schizzinosi, con cui non è facile parlare.»
«Non importa un accidente a nessuno,» disse Carnivoro, con trasporto. «Voi tre potete tornare alla nave...»
«Potremmo tornare al tunnel domattina,» disse Nicodemus. «E dargli un'altra occhiata. Potremmo notare qualcosa che finora ci è sfuggito. Dopotutto, ho dedicato tutto il tempo al quadro dei comandi, e nessuno ha fatto attenzione al tunnel vero e proprio. Forse troveremo qualcosa.»
«Lo farai?» chiese Carnivoro. «Davvero lo farai per il buon vecchio Carnivoro?»
E ormai, pensò Horton, è la fine. L'indomani mattina sarebbero andati a ispezionare il tunnel ancora una volta. Non avrebbero trovato niente, e non avrebbero potuto far più niente... però, pensandoci bene, era una frase inesatta: fino a quel momento, infatti, non avevano fatto nulla. Dopo vari millenni, se si accettavano le date di Elayne, avevano raggiunto finalmente un pianeta su cui l'uomo poteva vivere, e si erano precipitati in una missione di salvataggio che era finita in niente. Era illogico pensare così, si disse, ma era la verità. L'unica cosa di valore che avevano trovato erano gli smeraldi, e nella loro situazione, non valeva neppure la pena di raccattarli da terra. Ma forse, ripensandoci meglio, avevano trovato qualcosa che poteva ricompensare del tempo sprecato. Ma si trattava di qualcosa che non potevano rivendicare. In tutta giustizia, l'erede di Shakespeare doveva essere Carnivoro, e questo significava che il volume di Shakespeare spettava a lui.
Levò lo sguardo verso il teschio appeso sopra la porta. Mi piacerebbe avere quel libro, disse al teschio, mentalmente. Mi piacerebbe mettermi tranquillo a leggerlo, cercare di vivere i giorni del tuo esilio, giudicare la tua follia e la tua saggezza, trovando, senza dubbio, più saggezza che follia, perché anche nella follia può esservi talvolta la saggezza, cercare di correlare cronologicamente i brani e le annotazioni che tu hai scritto a casaccio, scoprire che tipo d'uomo eri, e come sei venuto a patti con la solitudine e la morte.
Ho parlato veramente con te? chiese al teschio. Ti sei proteso oltre la dimensione della porta per stabilire un contatto con me, forse, specificamente, per parlarmi dello Stagno? O forse cercavi semplicemente di entrare in contatto con uno qualsiasi, una qualunque entità intellettuale, in grado di rinunciare ad una incredulità naturale e quindi di parlare con te? Chiedilo allo Stagno, hai detto. E come lo si chiede allo Stagno? Ci si avvicina allo Stagno e si dice: Shakespeare mi ha informato che posso parlare con te... quindi avanti, parla? E che ne sai, veramente, dello Stagno? Forse c'è qualcosa che avresti voluto dirmi, ma non ne hai avuto il tempo? Adesso posso chiederti tutto questo, perché non mi risponderai. Comunque, mi aiuta a credere di aver parlato con te, bombardarti adesso di domande che non troveranno risposta da parte di una cosa d'osso sbiancato inchiodata sopra una porta.
A Carnivoro tutto questo non lo hai detto: ma tanto, con lui non parlavi; perché nella tua follia, dovevi avere paura di lui più di quanto lo rivelassi nei tuoi scritti. Eri un uomo strano, Shakespeare, e mi dispiace di non averti potuto conoscere, ma forse ti conosco adesso. Forse ti conosco meglio che se ti avessi incontrato da vivo. Forse meglio di quanto ti abbia conosciuto Carnivoro, perché io sono umano e lui no.
E Carnivoro? Già, e Carnivoro? Perché adesso erano alla fine, e qualcuno doveva decidere cosa fare di Carnivoro. Carnivoro, quel povero cafone, sgradevole e disgustoso... eppure bisognava fare qualcosa per lui. Dopo aver suscitato le sue speranze, non potevano andarsene e abbandonarlo lì. Nave... avrebbe dovuto chiederlo a Nave: ma aveva paura. Non avrebbe neppure cercato di porsi in contatto con Nave, perché se e quando l'avesse fatto, il problema di Carnivoro si sarebbe presentato, e lui conosceva già la risposta. Era una risposta che non voleva ascoltare, che non si sentiva di ascoltare.
«Lo stagno puzza forte, stasera,» disse Carnivoro. «Certe volte puzza di più, e quando il vento spira dalla parte giusta, è insopportabile.»
Quando quelle parole penetrarono nella sua coscienza, Horton si accorse di nuovo degli altri seduti intorno al fuoco; e il teschio di Shakespeare non era altro che una chiazza bianca sopra la porta.
C'era il fetore, l'immonda putredine dello Stagno, e da oltre il cerchio della luce del fuoco veniva una sorta di fruscio. Gli altri l'udirono e girarono la testa nella direzione da cui proveniva il suono. Nessuno parlava, in attesa che il suono si ripetesse.
E si ripeté, e adesso c'era un senso di movimento nell'oscurità, come se una parte della tenebra si fosse mossa: non era un movimento visibile, ma un senso di movimento. Una piccola parte dell'oscurità assunse una lucentezza, come se una sua sfaccettatura fosse divenuta uno specchio e riflettesse la luce del fuoco.
La lucentezza ingrandì e nelle tenebre vi fu un movimento inequivocabile... una sfera di buio più fondo che si avvicinava ondeggiando e frusciando.
Prima era stata solo un'allusione, poi una percezione: e adesso, improvvisamente ed inequivocabilmente, si rivelava... una sfera di tenebra, del diametro d'una sessantina di centimetri, che passava ondeggiando dalla notte al cerchio della luce del fuoco. E il fetore l'accompagnava... un fetore sempre più denso che tuttavia, con l'appressarsi della sfera, sembrava diventare meno pungente.
A tre metri dal fuoco, si fermò ed attese: una sfera nera dal lustro oleoso. Stava lì, semplicemente. Era immobile. Non c'erano fremiti, né pulsazioni: niente indicava che si fosse mai mossa o che fosse capace di muoversi.
«È lo Stagno,» disse Nicodemus, parlando sottovoce, come se non volesse turbarla o spaventarla. «Viene dallo Stagno. Una parte dello Stagno è venuta a farci visita.»
C'era tensione e paura, nel gruppo: eppure, si disse Horton, non era una paura travolgente, piuttosto stupita e sconcertata. Era come, pensò, se la sfera si fosse preoccupata di spaventarli il meno possibile.
«Non è acqua,» disse Horton. «Io ci sono stato, oggi. È più pesante. È come il mercurio, ma non è mercurio.»
«Allora una parte può assumere la forma di sfera,» disse Elayne.
«Quella cosa maledetta è viva,» squittò Carnivoro. «Sta lì, sa di noi, ci spia. Shakespeare dice che c'è qualcosa che non va nello Stagno. Lui ha paura di esso. Non va mai vicino. Shakespeare è un perfettissimo vigliacco. Dice che in momenti come questo, nella vigliaccheria c'è una profonda saggezza.»
«Qui,» disse Nicodemus, «succedono molte cose che noi non comprendiamo. Il tunnel bloccato, l'essere racchiuso nel tempo, e adesso questo. Ho l'impressione che stia per succedere qualcosa.»
«E allora?» chiese Horton alla sfera. «Sta per succedere qualcosa? Sei venuta a dirci questo?»
La sfera non emise alcun suono. Non si mosse. Restò semplicemente lì, in attesa.
Nicodemus le si avvicinò di un passo.
«Lasciala in pace,» disse Horton, bruscamente.
Il robot si fermò.
Il silenzio si protrasse. Non c'era nulla da fare, nulla da dire. Lo Stagno era lì: la prossima mossa spettava a lui.
La sfera fremette, vibrò, e poi si ritrasse, rotolando nell'oscurità senza lasciar tracce anche se, per molto tempo dopo la sua scomparsa, Horton ebbe l'impressione di poterla vedere ancora. Frusciava e sciaguattava mentre si muoveva: e il suono si spense finalmente in lontananza, e il fetore, cui avevano finito per abituarsi, incominciò a disperdersi.
Nicodemus tornò accanto al fuoco e si accovacciò.
«Perché?» chiese.
«Voleva darci un'occhiata,» ululò Carnivoro. «È venuto a darci un'occhiata.»
«Ma perché?» chiese Elayne. «Perché voleva darci un'occhiata?»
«Chi può sapere cosa vuole uno Stagno?» fece Nicodemus.
«C'è un solo modo per scoprirlo,» disse Horton. «Andrò a chiederlo allo Stagno.»
«Questa è la pazzia più grossa che abbia mai sentito,» disse Nicodemus. «Questo posto deve farti un brutto effetto.»
«Non credo sia una pazzia,» disse Elayne. «Lo Stagno è venuto a farci visita. Verrò con te.»
«No,» disse Horton. «Debbo andare da solo. Tutti voi resterete qui. Nessuno viene con me e nessuno mi segue. È chiaro?»
«Stai a sentire, Carter,» disse Nicodemus, «non puoi precipitarti via così...»
«Lasciatelo andare,» ringhiò Carnivoro. «È simpatico sapere che non tutti gli umani sono come il mio vigliacco amico, là sulla porta.»
Balzò in piedi e rivolse a Horton un saluto brusco, quasi beffardo. «Vai, mio amico guerriero. Vai incontro al nemico.»
24.
Si smarrì due volte, sbagliando a svoltare per il sentiero, ma finalmente arrivò allo stagno, scendendo l'erta ripida, mentre la luce della torcia elettrica si rifletteva sulla dura levigatezza della superficie.
Nella notte c'era un silenzio di morte. Lo Stagno era piatto e spento. Una manciata di stelle sconosciute impolverava il cielo. Guardandosi intorno, Horton scorse il bagliore del fuoco che illuminava la cima di un albero altissimo.
Piantò i tacchi sul gradino di pietra che portava allo Stagno e si chinò.
«Bene,» disse parlando con la voce e con la mente. «Sentiamo.»
Attese, e gli parve che vi fosse un lieve movimento nello Stagno, un'increspatura che non era un'increspatura, e dalla riva opposta giunse un bisbiglio, come un vento che spirasse dolcemente tra le canne. Horton sentì un moto nella sua mente, l'impressione che qualcosa vi prendesse forma.
Attese, e poi la cosa non fu più nel suo cervello, ma nello spostamento di coordinate di cui non sapeva nulla, solo che dovevano esservi in gioco delle coordinate, e si sentì spiazzato. Aleggiava, o almeno così gli pareva, come un essere disincarnato, in un vuoto sconosciuto contenente un solo oggetto, una sfera azzurra brillante nella luce del sole che scendeva sopra la sua spalla sinistra, o dove doveva essere la spalla sinistra, perché non era neppure certo di avere un corpo.
La sfera si muoveva verso di lui, oppure era lui che precipitava verso la sfera... non riusciva a capirlo. Comunque, stava diventando più grande. E mentre cresceva, l'azzurrità della superficie si chiazzava di screziature bianche irregolari, ed egli comprese che la sfera era un pianeta, oscurato in parte dalle nubi mascherate fino a quel momento dall'azzurro intenso della superficie.
Ormai non c'era dubbio: stava precipitando attraverso l'atmosfera del pianeta, e tuttavia la caduta sembrava così controllata che egli non provava apprensione. Non era esattamente una caduta: era veleggiare verso il basso, come un pappo di cardo che fluttuasse nell'aria. La forma della sfera era scomparsa, il suo disco era divenuto così immane da riempire e superare la sua visuale. Sotto di lui stava ora la grande pianura azzurra spennellata del bianco delle nubi. Le nubi e nient'altro, nessuna traccia di una massa continentale.
Ora si muoveva più rapidamente, nel precipitare, ma continuava ad avere la sensazione di essere un seme di cardo. Quando fu più vicino alla superficie, vide che l'azzurrità era increspata... acqua mossa dall'infuriare del vento che la spazzava.
Non era acqua, gli disse qualcosa. Liquido, ma non acqua. Un mondo di liquido, un talassopianeta, un mondo fluido senza continenti né isole.
Liquido?
«Dunque è così,» disse, parlando con la bocca del corpo che stava accovacciato sulla riva dello Stagno. «È di là che vieni. È questo che sei.»
E tornò ad essere un seme lanuginoso di cardo librato su un pianeta, intento a osservare, sotto di lui, un grande movimento nell'oceano, con il liquido che si aggobbiva e saliva, arrotondandosi e modellandosi in una sfera, forse di parecchi chilometri di diametro, ma per il resto simile a quella che era venuta in visita all'accampamento. Vide che la sfera si sollevava, si innalzava nell'aria, dapprima lentamente, e poi accelerando, fino a quando la vide venire verso di lui come una gigantesca palla di cannone. Non lo colpì, ma non lo mancò di molto. Il suo essere di seme-di-cardo venne afferrato e sbatacchiato dallo spostamento d'aria causato dal passaggio della sfera liquida. Molto più indietro, udiva il lungo rombo di tuono, mentre l'atmosfera lacerata si riprecipitava scrosciando nel vuoto creato dal passaggio del globo.
Si voltò e vide che il pianeta si allontanava rapidamente, ripiombava nello spazio. Era strano, pensò... che al pianeta accadesse questo. Ma quasi subito si rese conto che non era il pianeta a spostarsi, ma lui. Era stato catturato dall'attrazione della massiccia palla da cannone liquida e, rimbalzando, trascinato dalla sua gravità, la seguiva negli abissi dello spazio.
Tutto appariva assurdo. Gli pareva di aver perduto ogni senso d'orientamento. Ad eccezione della palla da cannone liquida e delle stelle lontane, non c'erano punti di riferimento, e anche quelli esistenti avevano scarso significato. Gli sembrava di aver perduto la misura del tempo, e lo spazio non era più misurabile: e sebbene egli conservasse qualcosa dell'identità personale, si era ridotta a una minuscola fiammella. Ecco cosa succede, si disse, compiaciuto, quando non hai corpo. Un milione d'anni-luce possono essere un passo, e un milione d'anni solo lo scandire di un secondo. La sola cosa di cui era conscio era il suono dello spazio, simile allo scroscio di un oceano che precipitasse da una cascata alta mille miglia... e un altro suono, una cantilena, un frinire di grilli, quasi troppo acuto perché il suo udito lo captasse: e quello, si disse, era il sospiro del lampo di calore balenante al di qua dell'infinito, e il bagliore di quel lampo, lo sapeva, era l'emblema del tempo.
All'improvviso, mentre distoglieva un attimo lo sguardo, si accorse che il globo lanciato nello spazio aveva trovato un sistema solare, e sfrecciava attraverso una densa atmosfera, per girare intorno ad uno dei pianeti. Mentre guardava, il globo si deformò, da una parte, si aggobbì formando un'altra sfera più piccola, che si staccò e cominciò ad orbitare intorno al pianeta, mentre la sfera madre, più grande, descrisse una curva per avventarsi di nuovo nello spazio. Nel curvare, lo sganciò e lo lanciò lontano, ed egli si ritrovò, libero, a precipitare verso la superficie scura del pianeta sconosciuto. La paura affondò gli artigli nel suo essere: aprì la bocca per urlare, e si stupì di avere ancora una bocca.
Ma prima che potesse lanciare l'urlo, non ebbe più bisogno di urlare, perché era ritornato entro il suo corpo, accosciato in riva allo Stagno.
Aveva gli occhi chiusi e li aprì, con la sensazione di dover forzare le palpebre. Riusciva a vedere abbastanza bene, nonostante l'oscurità della notte. Lo Stagno giaceva placido nella sua conca rocciosa, uno specchio senza increspature che rifletteva la luce delle stelle sparpagliate lassù in cielo. Sulla destra si levava la collina, un'ombra conica nell'oscurità, e sulla sinistra, il dorsale su cui sorgeva la città in rovina sembrava un'enorme bestia nera accovacciata.
«Dunque è così,» disse, parlando sottovoce allo Stagno, non più di un mormorio, come se fosse un segreto che doveva restare tra loro. «Una colonia del pianeta liquido. Forse una tra molte colonie. Ma perché? Cosa ci guadagna, il pianeta, dalle colonie? Un oceano vivente che lancia piccoli segmenti di se stesso, per seminare altri sistemi solari. E quando li ha seminati, cosa ci guadagna? Cosa spera di guadagnare?»
Tacque, accosciato nel silenzio, un silenzio così profondo da risultare snervante, così profondo e incontaminato che gli pareva ancora di udire la cantilena acuta, sibilante del tempo.
«Parlami,» implorò. «Perché non mi parli? Puoi mostrare e spiegare; perché non puoi parlare?»
Perché questo non bastava, si disse. Non bastava per sapere cosa poteva essere lo Stagno e come era finito lì. C'era soltanto un inizio, un fatto fondamentale, che non chiariva il movente e la speranza e lo scopo, e questi erano importanti.
«Senti,» disse, ancora supplichevole, «tu sei una vita, ed io un'altra vita. Per nostra natura non possiamo farci male a vicenda, non abbiamo neppure ragione di desiderarlo. Perciò non abbiamo nulla da temere. Senti, la metterò così... c'è qualcosa che posso fare per te? C'è qualcosa che vuoi fare per me? O in mancanza di questo, com'è possibile poiché operiamo su due piani tanto diversi, perché non cerchiamo di parlarci, di imparare a conoscerci meglio? Tu devi possedere un'intelligenza. Sicuramente questa seminagione dei pianeti non è solo un comportamento istintivo, l'azione di una pianta che lancia i semi perché mettano radici altrove, come la nostra venuta qui è qualcosa di più della cieca disseminazione del nostro seme culturale.»
Rimase in attesa, e vi fu di nuovo un fremito nella sua mente, come se qualcosa vi fosse penetrato e si sforzasse di formarvi un messaggio, di tracciarvi un'immagine. Lentamente, faticosamente, l'immagine crebbe e si strutturò, dapprima come un fremito, poi come una chiazza sfuocata, e infine, consolidandosi in una rappresentazione vignettistica che cambiava e cambiava e cambiava, divenendo più chiara e definitiva ad ogni cambiamento, fino a quando gli parve di essersi sdoppiato... due lui accosciati lì accanto allo Stagno. Ma uno dei due teneva in mano una bottiglia, la stessa che aveva preso nella città, e si chinava ad immergerla nel liquido dello Stagno. Affascinato, restò a guardare — i due lui restarono a guardare — mentre il collo della bottiglia gorgogliava, eruttando uno spruzzo di bollicine, l'aria estromessa forzatamente dal liquido dello Stagno che vi entrava.
«Va bene,» disse un Horton. «Va bene: e poi, che debbo fare?»
L'immagine cambiò, e l'altro lui, reggendo delicatamente la bottiglia, salì la rampa di Nave, anche se Nave era venuta male, era sghemba e storta, una rappresentazione mediocre di Nave come le incisioni della bottiglia erano raffigurazioni mediocri degli esseri che intendevano ritrarre.
Ormai l'altro se stesso era entrato nella Nave, e la rampa si sollevava e la Nave s'innalzava dal pianeta, puntando verso lo spazio.
«Dunque vuoi venire con noi,» disse Horton. «Per amor di Dio, c'è qualcosa su questo pianeta che non voglia venire con noi? Ma così poco di te, solo una fiasca.»
Questa volta l'immagine si formò rapida nella sua mente... un diagramma che mostrava quel lontano pianeta liquido e molti altri pianeti con globi di liquido che li raggiungevano o li lasciavano, e piccole gocce cadute delle sfere discendenti sui pianeti seminati. Il diagramma cambiò: apparvero linee che partivano da tutti i pianeti seminati e dal pianeta liquido, e si orientavano verso un punto dello spazio, unendosi là dove un cerchio era tracciato intorno alla congiunzione. Le linee sparirono, ma il cerchio rimase, e altre linee vennero tracciate rapidamente, per convergere al suo interno.
«Vuoi dire...?» chiese Horton, e l'immagine si ripeté.
«Inseparabile?» chiese Horton. «Vuoi dire che sei uno solo? Che non siete molti, ma uno solo? Che vi è un solo io? Non un 'noi', ma un unico 'io'? Che tu, qui davanti a me, sei solo un'estensione di un'unica vita?»
Il riquadro del diagramma diventò bianco.
«Vuoi dire che è esatto?» chiese Horton. «È questo che intendevi?»
Il diagramma svanì dalla sua mente, e fu sostituito da uno strano sentimento di felicità, di soddisfazione per un problema risolto. Non una parola, non un segno. Solo la sensazione di aver ragione, di aver centrato il significato.
«Ma io parlo con te,» disse. «E tu sembri capire. Come mai mi capisci?»
Senti di nuovo il fremito nella mente, ma questa volta non si formò alcuna immagine. Vi furono guizzi, e figure vaghe, e poi tutto svanì.
«Quindi,» disse Horton, «non sei in grado di dirmelo.» Ma, pensò, forse non ce n'era bisogno. Doveva saperlo lui stesso. Poteva parlare con Nave, tramite il congegno, qualunque cosa fosse, che era innestato nel suo cervello, e forse qui entrava in gioco un principio affine. Lui e Nave comunicavano a parole, perché entrambi conoscevano le parole. Avevano un mezzo di comunicazione comune, ma con Stagno quel mezzo non esisteva. Perciò Stagno, afferrando parte del significato dei pensieri da lui formati mentalmente mentre parlava, i pensieri fratelli delle sue parole, aveva ripiegato sulla forma più fondamentale di comunicazione, le immagini. Immagini dipinte sulla parete di una grotta, incise sul vasellame, disegnate sulla carta... immagini nella mente. L'espressione dei processi di pensiero.
Credo che non abbia importanza, si disse. Possiamo comunicare. Le idee possono varcare la barriera tra noi. Ma era così pazzesco, pensò... una struttura biologica di molti tessuti diversi che parlava con una massa di liquido biologico. E non solo con quei litri di liquido racchiusi nella conca rocciosa, ma con i miliardi e miliardi di ettolitri di liquido di quel pianeta lontano.
Si mosse, cambiò posizione: si sentiva i muscoli delle gambe aggranchiti.
«Ma perché?» chiese. «Perché vuoi venire con noi? Non per creare un'altra minuscola colonia... una colonia grande come un secchio su qualche altro pianeta che forse raggiungeremo, magari tra qualche secolo. Non ha senso. Devi avere sistemi molto migliori per creare le tue colonie.»
Rapidamente, l'immagine prese forma nella sua mente... il pianeta liquido lucente nella sua azzurrità devastante contro lo sfondo nero dello spazio, e le tante sottili linee irregolari che ne partivano, dirette verso altri pianeti. E mentre vedeva le linee serpeggiare attraverso il diagramma, Horton credette di capire che i pianeti verso cui si dirigevano erano quelli su cui il mondo liquido aveva creato colonie. Stranamente, pensò, quelle linee irregolari somigliavano un po' al segno convenzionale con cui gli umani rappresentavano i fulmini, e si rese conto che Stagno aveva preso in prestito da lui certe convenzioni, per facilitare la comunicazione.
Uno dei molti pianeti del diagramma sfrecciò verso di lui, ingrandendosi più degli altri: e Horton vide che non era un pianeta, era Nave, ancora sghemba, ma riconoscibile; e uno dei fulmini le si infrangeva contro, rimbalzava e veniva sfrecciando verso di lui. Si chinò, istintivamente, ma non fu abbastanza svelto, e il fulmine lo colpì in mezzo agli occhi. Ebbe la sensazione di disgregarsi, di venire scagliato nell'universo, spogliato e squarciato. E mentre si disperdeva nel cosmo, una grande pace discese da chissà dove e lo avvolse dolcemente. In quell'istante vide e comprese. Poi tutto sparì e lui si ritrovò nel proprio corpo, sulla riva rocciosa dello Stagno.
L'ora di Dio, pensò... è incredibile. Eppure, ripensandoci, gli appariva più credibile e più logico. Il corpo umano, tutti i corpi biologici complicati, avevano un sistema nervoso che era in effetti una rete di comunicazione. E sapendo questo, perché doveva rifiutare il pensiero di un'altra rete di comunicazione, che operava attraverso gli anni-luce, per collegare i molti segmenti dispersi di un'altra intelligenza? Un segnale, per ricordare ad ogni colonia remota che era ancora e sarebbe rimasta parte dell'organismo.
L'effetto di una fucilata, si era detto prima... colto dalla rosa dei pallini sparati contro qualcosa d'altro. E adesso sapeva che quel qualcosa d'altro era Stagno. Ma se era stato solo un effetto secondario, perché adesso Stagno voleva includere lui e Nave nella rosa dei pallini dell'ora di Dio? Perché voleva che prendesse a bordo un secchio del suo liquido? Per fornire un bersaglio che avrebbe inserito lui e Nave nell'ora di Dio? Oppure aveva frainteso?
«Ti ho frainteso?» chiese allo Stagno: e in risposta, provò di nuovo la dispersione, lo squarciamento e la pace. Strano, pensò, prima non aveva conosciuto la pace, ma solo paura, e confusione. La pace e la comprensione, anche se questa volta era venuta solo la pace, non la comprensione, ed andava bene così, pensò Horton, perché anche se l'aveva intuita, non si era fatto un'idea della comprensione, aveva avuto solo la conoscenza, l'impressione che la comprensione ci fosse e che, con il tempo, fosse possibile raggiungerla. Per lui la comprensione era stata sconcertante come tutto il resto. Ma non per tutti, si disse: Elayne, per un istante, aveva afferrato la comprensione, istintivamente, per poi smarrirla di nuovo.
Stagno offriva qualcosa, a lui ed a Nave, e sarebbe stato scortese vedere nell'offerta qualcosa di diverso del desiderio che spingeva un'intelligenza a dividere con un'altra un po' della sua conoscenza e della sua intuizione. Come aveva detto a Stagno, non poteva esserci conflitto tra due forme di vita tanto dissimili. Data la natura delle differenze, non poteva esserci tra loro né concorrenza né antagonismo. Eppure, in fondo alla sua mente, udiva il tintinnio metallico dei campanelli d'allarme incorporati in ogni cervello umano. Era ingiusto, si disse rabbiosamente, era indegno: ma il tintinnio continuava e continuava. Non ti rendere vulnerabile, scandivano i campanelli, non esporre la tua anima, non fidarti di nulla fino a quando un'esperienza ripetuta non ti dia la triplice certezza che non te ne verrà alcun male.
Tuttavia, si disse, forse l'offerta di Stagno poteva non essere del tutto altruista. Poteva esservi qualcosa dell'umanità, qualche conoscenza, qualche prospettiva o punto di vista, qualche giudizio etico o valutazione storica, che Stagno poteva utilizzare. Provò uno slancio d'orgoglio al pensiero che l'umanità potesse donare qualcosa a quell'intelligenza insospettata, dimostrando che le entità intelligenti, per quanto dissimili, potevano trovare o crearsi una base comune.
A quanto sembrava, Stagno offriva, per chissà quale ragione, un dono molto prezioso nella sua scala dei valori... non un gingillo vistoso quale una civiltà arrogante e più grande poteva offrire a un barbaro. Shakespeare aveva scritto che l'ora di Dio poteva essere un meccanismo d'insegnamento: e avrebbe potuto esserlo, naturalmente. Ma poteva anche essere, pensò Horton, una religione. O semplicemente un segnale di riconoscimento, un richiamo del clan, una convenzione per ricordare a Stagno ed a tutti gli altri Stagni della galassia, l'unità, l'identità di tutti, tra loro e il pianeta che li aveva generati. Un segno di fratellanza, forse... e se era così, allora lui, e per suo tramite la razza umana, stavano ricevendo l'offerta di una partecipazione in prova alla confraternita.
Ma era più di un semplice segnale di riconoscimento, ne era certo. La terza volta che l'aveva investito, lui non era stato avviato nell'esperienza simbolica vissuta in precedenza, ma in una scena della sua infanzia e in un'umanissima fantasia in cui aveva parlato con il teschio di Shakespeare. Era stato soltanto un avvio, oppure era avvenuto perché il meccanismo (il meccanismo?) responsabile dell'ora di Dio si era aperto la strada nella sua mente e nella sua anima, esaminando e sondando e analizzando come aveva mostrato di fare quelle prime due volte? E qualcosa del genere, ricordò, l'aveva provato anche Shakespeare.
«C'è qualcosa che vuoi?» chiese. «Tu fai questo per noi... cosa possiamo fare per te?»
Attese la risposta, ma non venne. Stagno rimase scuro e placido, mentre la luce delle stelle ne screziava la superficie.
Tu fai questo per noi, aveva detto; cosa possiamo fare per te? L'aveva detto come se l'offerta di Stagno fosse qualcosa di grande valore, qualcosa di necessario. Ma lo era? si chiese. Era qualcosa di necessario, di voluto? O non era forse qualcosa di cui potevano fare a meno, felicemente a meno?
E si vergognò. Il primo contatto, pensò. Poi capì di avere sbagliato. Primo contatto per lui e Nave, ma forse non per Stagno e i molti altri Stagni su molti altri pianeti, né per molti altri umani. Da quando Nave aveva lasciato la Terra, l'uomo si era sparso nella galassia, e quelle schegge d'umanità dovevano avere avuto molti altri contatti con esseri strani e meravigliosi.
«Stagno,» disse. «Ti ho parlato. Perché non mi hai risposto, Stagno?»
Un lieve fremito gli passò nella mente, un fremito soddisfatto, come il sospiro sommesso di un cucciolo che si accovaccia per dormire.
«Stagno!» disse Horton.
Non ebbe risposta. Il fremito non si ripeté. Ed era finito, era tutto? Forse Stagno era stanco. Gli sembrava ridicolo che una cosa come Stagno potesse essere stanca.
Si alzò in piedi e i muscoli aggranchiti delle gambe gridarono di sollievo. Ma non si mosse subito: restò lì ad ascoltare lo sbalordimento che tuonava dentro di lui.
Era rimasto deluso, lo ricordava, alla prima occhiata data al pianeta, deluso della sua mancanza di alienità, e l'aveva giudicato nient'altro che una Terra sciatta. A ben vedere, disse, difendendo quella prima impressione, era abbastanza sciatto.
Adesso che era il momento di andare, adesso che era stato congedato, provava una strana riluttanza ad allontanarsi. Era come se, avendo stabilito un'amicizia nuova, gli dispiacesse dire addio. Era un termine errato, e lo sapeva: non era un'amicizia. Cercò la parola esatta: ma non gliene venne in mente nessuna.
Poteva mai esistere una vera amicizia, si chiese, un'amicizia tra due intelligenze così completamente diverse? Potevano trovare quel terreno comune, quell'armonia, avrebbero mai potuto dirsi: Sono d'accordo con te... forse hai affrontato il concetto di un'umanità comune e di una comune filosofia di un punto di vista diverso, ma la tua conclusione coincide con la mia?
Era improbabile nei dettagli, si disse. Ma sulla base di vasti principi, forse era possibile.
«Buonanotte, Stagno,» disse. «Sono lieto di averti finalmente incontrato. Spero che ci andrà bene a tutti e due.»
Risalì lentamente la riva rocciosa e si avviò per il sentiero, usando la torcia elettrica per ritrovare la strada.
Quando aggirò una curva, il raggio di luce inquadrò una figura bianca. Spostò la lampada. Era Elayne.
«Ti sono venuta incontro,» disse lei.
Horton le si avvicinò. «È stata una sciocchezza,» disse. «Potevi smarrirti.»
«Non me la sentivo di restare,» disse lei. «Dovevo cercarti. Ho paura. Sta per accadere qualcosa.»
«Ancora quel senso di consapevolezza?» chiese Horton. «Come quando abbiamo trovato l'essere racchiuso nel tempo?»
Elayne annuì. «Immagino di sì. Mi sento inquieta, nervosa. Come se stessi da qualche parte, in attesa di spiccare un balzo, ma senza sapere da che parte saltare.»
«Dopo quello che è successo prima,» disse lui, «sono disposto a crederti. À credere alla tua intuizione. Oppure è più forte di un'intuizione?»
«Non so,» disse Elayne. «È così forte da spaventarmi... disperatamente. Mi domando... passeresti la notte con me? Ho una coperta grande. Vuoi dividerla con me?»
«Ne sarei lieto ed onorato.»
«Non solo perché siamo una donna e un uomo,» disse lei. «Anche se, credo, c'entra anche questo. Ma perché siamo due esseri umani... i soli esseri umani. Abbiamo bisogno l'una dell'altro.»
«Sì,» disse lui. «È vero.»
«Tu avevi una donna. Hai detto che gli altri sono morti...»
«Helen,» disse Horton. «È morta da centinaia d'anni, ma per me è stato solo ieri.»
«Perché eri ibernato?»
«Sì. Il sonno cancella il tempo.»
«Se vuoi, puoi fingere che io sia Helen. Non mi dispiacerà.»
Horton la guardò. «Non fingerò,» disse.
25.
Ed ecco che svanisce la tua teoria, disse lo scienziato al monaco, sulla mano di Dio che ci sfiora la fronte.
Non m'importa, disse la gran dama. Questo pianeta non mi piace. Lo giudico ancora sgradevole. Voi potete entusiasmarvi per un'altra forma di vita, un'altra intelligenza molto dissimile da noi, ma a me non piace più di quanto piaccia il pianeta.
Debbo confessare, disse il monaco, che non mi sorride troppo l'idea di portare a bordo anche qualche litro dello Stagno. Non capisco perché Carter abbia accettato di farlo.
Se ricordi quello che c'è stato tra Carter e lo Stagno, disse lo scienziato, ti renderai conto che Carter non ha fatto promesse. Tuttavia, credo che dovremmo portarlo. Se scopriamo di aver commesso un errore, c'è un rimedio semplicissimo. Quando vorremo, Nicodemus potrà gettare lo Stagno fuori bordo.
Ma perché dovremmo prenderci questo disturbo? chiese la gran dama. Quella che Carter chiama l'ora di Dio... per noi non è nulla. Ci ha sfiorati, ecco tutto. L'abbiamo percepita, come Nicodemus. Non ne abbiamo fatto l'esperienza allo stesso modo di Carter e di Shakespeare. Carnivoro... non sappiamo esattamente cosa sia successo a lui. Era molto spaventato.
Non ne abbiamo fatto l'esperienza, ne sono certo, disse lo scienziato, perché le nostre menti, che sono meglio preparate e disciplinate...
È così solo perché non abbiamo altro che le nostre menti, disse il monaco.
È vero, disse lo scienziato. Come stavo dicendo, con le menti meglio disciplinate, istintivamente abbiamo schivato l'ora di Dio. Non le abbiamo permesso di raggiungerci. Ma se le aprissimo le nostre menti, probabilmente ne riceveremmo molto più degli altri.
E anche se non fosse così, disse il monaco, avrò Horton a bordo. Lui ci riesce benissimo.
E la ragazza, disse la gran dama. Elayne... si chiama così? Sarà bello avere di nuovo due umani a bordo.
Non durerà a lungo, disse lo scienziato. Horton, o tutti e due, se verrà anche lei, dovranno ibernarsi molto presto. Non possiamo lasciare che i nostri passeggeri umani invecchino. Rappresentano una risorsa vitale che dobbiamo tenere nella massima considerazione.
Ma solo per qualche mese, insistette la gran dama. In qualche mese, riusciranno a captare molto dall'ora di Dio.
Non possiamo prenderci qualche mese, disse lo scienziato. Una vita umana è molto breve.
Tranne nel nostro caso, disse il monaco.
Non possiamo sapere quanto saranno lunghe le nostre vite, disse lo scienziato. Almeno per ora non possiamo. Tuttavia direi che, nel pieno significato del termine, forse non siamo più umani.
Certo che lo siamo, disse la gran dama. Siamo troppo umani. Ci aggrappiamo alle nostre identità, alle nostre individualità. Litighiamo tra di noi. Lasciamo trasparire i nostri pregiudizi. Siamo ancora meschini e criticabili. E non dovremmo esserlo. Le tre menti dovevano confluire, divenire una mente molto più grande ed efficiente. E non parlo solo di me, della mia meschinità, che sono pronta a riconoscere, ma di te, Scienziato, con il tuo punto di vista scientifico esagerato che tendi ad ostentare per provare la tua superiorità nei confronti di una donna frivola e incostante e di un monaco ingenuo...
Non mi degnerò di discutere con te, disse lo scienziato, ma debbo ricordarti che vi sono stati momenti...
Sì, momenti, disse il monaco. Quando negli abissi dello spazio interstellare non c'erano distrazioni, quando ci eravamo logorati con la nostra meschinità, quando ci annoiavamo a morte. Allora confluivano per pura stanchezza, e quelli erano gli unici momenti in cui ci avvicinavamo all'affinata mente comune che quelli sulla Terra si aspettavano che realizzassimo. Mi piacerebbe vedere che faccia farebbero tutti quei neurologi presuntuosi e quegli psicologi dal cervello di gallina che ci prepararono il copione, se potessero vedere come si sono concretati nella realtà tutti i loro calcoli. Naturalmente, ormai sono tutti morti..
Era il vuoto, disse la gran dama. Era quello ad unirci. Il vuoto e il nulla. Come tre bambini spaventati, rannicchiati insieme per difenderci dal vuoto. Tre menti che cercavano la protezione reciproca, ecco tutto.
Forse, disse lo scienziato, ti sei avvicinata alla verità della situazione. Nella tua amarezza, ti sei avvicinata alla verità.
Non sono amareggiata, disse la gran dama. Se mai vengo ricordata, lo sono come una persona altruista che ha dato parte di sé per tutta la vita, che ha dato più di quanto si poteva chiedere ad un essere umano. Penseranno a me come ad una che ha rinunciato al proprio corpo e alla consolazione della morte per il progresso della causa...
Quindi, disse il monaco, ancora una volta tutto si riduce alla vanità umana ed alle speranze umane mal orientate, anche se non sono d'accordo con te nel ritenere la morte una consolazione. Ma hai ragione, quando parli del vuoto.
Il vuoto, pensò lo scienziato. Sì, il vuoto. Ed era strano che lui, un uomo che avrebbe dovuto comprendere il vuoto, che avrebbe dovuto aspettarselo, non fosse riuscito a capirlo, ad accettarlo, e si fosse lasciato prendere dalla stessa reazione illogica degli altri due, finendo per averne vergognosamente paura. Il vuoto, aveva saputo, era solo relativo. Lo spazio non era vuoto, e lui aveva saputo che non lo era. Sebbene rarefatta e dispersa, c'era la materia, in gran poste composta di molecole piuttosto complesse. Lo aveva ripetuto a se stesso più e più volte... non è vuoto, non è vuoto, c'è la materia. Eppure non era riuscito a convincersi. Perché nell'apparente vuoto dello spazio c'erano un'indifferenza e una freddezza che spingevano a ripiegarsi su se stessi, a ritrarsi dalla freddezza e dall'indifferenza. La cosa peggiore del vuoto, pensava, era che faceva sentire così piccoli ed insignificanti, ed era quello il pensiero da combattere perché la vita, per quanto piccola, non poteva essere insignificante. La vita, in verità, era l'unica cosa, la sola cosa che avesse significato nell'intero universo.
Eppure, disse il monaco, c'erano momenti, ricordo, in cui superavamo la paura e non ci rannicchiavamo più, dimenticavamo la nave, e come un'entità appena nata, avanzavamo nel vuoto come se fosse perfettamente naturale, quasi camminassimo in un prato o in un giardino. Ho sempre pensato che quei momenti venissero solo quando giungevamo al punto in cui ci sembrava di non poter sopportare più, quando avevamo raggiunto e valicato le deboli capacità umane... quando veniva quell'istante cera una valvola di sicurezza, una situazione compensatrice, in cui accedevamo ad un nuovo piano dell'esistenza...
Lo ricordo anch'io, disse lo scienziato, e dal ricordo posso trarre qualche speranza. Come sembriamo confusi, capaci di convincerci di non avere speranza... e poi ricordiamo un piccolo particolare che ce la rende. È tutto così nuovo, per noi... questa è la difficoltà. Nonostante i millenni, è ancora troppo nuovo. Una situazione così unica, così estranea ai nostri concetti umani, che è un prodigio se non siamo ancora più confusi.
La gran dama disse: Ricordate che di tanto in tanto, su questo pianeta, abbiamo percepito un'altra intelligenza, una sorta d'emanazione di un'altra intelligenza, come se fossimo segugi in cerca di un'antica traccia. Ed ora che abbiamo sentito tutta la forza dell'intelligenza dello Stagno — per quanto io sia riluttante a dirlo, dato che non voglio altra intelligenza — non mi sembra che si tratti di quella che avevamo percepito prima. È possibile che vi sia un'altra grande intelligenza, su questo sciocco pianeta?
L'essere-nel-tempo, forse, suggerì il monaco. L'intelligenza che avevamo percepito era molto fioca, estremamente sottile. Come se cercasse di nascondersi per non farsi scoprire.
Non credo, disse lo scienziato. Una cosa racchiusa nel tempo, direi, dovrebbe essere impercettibile. Non riesco a pensare ad un isolamento più efficace di uno schermo di tempo bloccato. La cosa più. terribile, per quanto riguarda il tempo, è che non lo conosciamo affatto. Spazio, materia ed energia... sono fattori che possiamo fingere di riconoscere, o almeno possiamo accettarne teoricamente i valori teorici. Il tempo è il mistero assoluto. Non possiamo essere certi che sia attuale. Non ha un manico per cui possiamo afferrarlo per esaminarlo.
Quindi può esserci un'altra intelligenza... un'intelligenza sconosciuta?
Non m'importa, disse la gran dama. Non ho nessun desiderio di conoscerla. Spero che il bel rompicapo in cui siamo coinvolti finisca presto, e che possiamo andarcene di qui.
Non ci vorrà molto, disse il monaco. Ancora poche ore, forse. Il pianeta è chiuso, e non c'è altro da fare. Domattina, andranno a vedere il tunnel e si renderanno conto che non c'è niente da fare. Ma prima che questo avvenga, c'è una decisione da prendere. Carter non ce lo ha chiesto perché non osa. Ha paura della nostra risposta.
La risposta è no, disse lo scienziato. Ver quanto ci dispiaccia, deve essere no. Carter ci giudicherà duramente. Potrà dire che abbiamo perduto la nostra umanità insieme ai nostri corpi, che conserviamo solo la freddezza del nostro intelletto. Ma sarà la sua debolezza a parlare: dimenticherà che dobbiamo essere duri, che la debolezza non ha parte nel gioco, lontano dal condizionamento del nostro pianeta. E inoltre, non sarebbe un favore che renderemmo al Carnivoro. Trascinerebbe un esistenza squallida in questa gabbia metallica, con Nicodemus che lo detesta e che lui detesta e di cui forse ha paura... e questo getterebbe olio sul fuoco della sua vergogna: il pensiero che un guerriero famoso, uccisore di tanti mostri malvagi, si sia ridotto a temere un meccanismo fragile come Nicodemus.
Ed a ragione, disse il monaco, perché senza dubbio Nicodemus, con l'andar del tempo, lo ucciderebbe.
È così rozzo, disse la gran dama, con un brivido nel pensiero, così privo di sensibilità, senza delicatezza né premure...
Di chi parli? chiese il monaco. Carnivoro o Nicodemus?
Oh, non Nicodemus. Mi sembra così carino.
26.
Stagno gridò di terrore.
Udendolo con i margini della sua mente, Horton si mosse nel tepore e nella vicinanza, l'intimità e la nudità, aggrappandosi alla presenza di un altro umano... una donna, ma l'umanità aveva importanza quanto la femminilità, perché in quel luogo erano i due unici umani.
Stagno gridò di nuovo, un'ondulazione stridula di allarme, che gli affondò nel cervello. Horton si levò a sedere sulla coperta.
«Che c'è, Carter Horton?» chiese insonnolita Elayne.
«È Stagno,» disse lui. «È successo qualcosa.»
Il primo rosseggiare dell'aurora saliva il cielo orientale, spargendo una mezza luce spettrale in cui spiccavano nebulosamente gli alberi e la casa di Shakespeare. Il fuoco si era ridotto a un mucchio di braci che ammiccavano con occhi rossosangue. Oltre il fuoco stava ritto Nicodemus, rivolto in direzione dello Stagno. Era eretto e rigido, all'erta.
«Ecco i tuoi calzoni,» disse Elayne. Horton tese la mano per prenderli.
«Cosa c'è, Nicodemus?» chiese.
«Qualcosa ha urlato,» disse il robot. «Non si udiva. Ma si percepiva l'urlo.»
Infilandosi i calzoni, Horton rabbrividì nel freddo dell'alba.
Il grido si ripeté, più disperato di prima.
«Guardate cosa sta arrivando dal sentiero,» disse Elayne, con voce tesa.
Horton si voltò a guardare e deglutì. Erano tre. Erano bianchi e lisci e sembravano lumache, erette, untuose e ripugnanti, come si possono trovare sotto una pietra rovesciata. Avanzavano rapidamente, balzellando sull'estremità inferiore affusolata. Non avevano piedi, ma sembrava che non ne avessero bisogno. Non avevano né braccia né volti... erano solo grasse lumache felici, che saltellavano rapidamente su per il sentiero che proveniva dal tunnel.
«Altri tre naufraghi,» disse Nicodemus. «Qui si sta formando una vera colonia. Come mai, secondo voi, ne arrivano tanti, attraverso quel tunnel?»
Carnivoro uscì incespicando dalla porta della Casa di Shakespeare. Si stirò e si grattò.
«Che diavolo sono, loro?» chiese.
«Non si sono presentati,» disse Nicodemus. «Sono appena comparsi.»
«Buffi, no?» fece Carnivoro. «Non hanno piedi. Saltellano.»
«Sta succedendo qualcosa,» disse Elayne. «Qualcosa di tremendo. L'ho sentito ieri sera, ricordatelo, che stava per accadere qualcosa.»
Le tre lumache avanzarono per il sentiero, senza badare a coloro che stavano intorno al fuoco, e quasi sfiorandoli li superarono, per prendere il sentiero che conduceva allo Stagno.
La luce ad oriente s'era ravvivata, e lontano, nella foresta, qualcosa emise un suono, come se qualcuno facesse strusciare un bastone lungo una staccionata.
Un altro grido di Stagno lacerò la mente di Horton. Si lanciò a corsa giù per il sentiero che portava alla conca, e il Carnivoro lo raggiunse, a grandi balzi.
«Vuoi rivelarmi,» chiese, «cos'è accaduto per causare eccitazione e tanto correre?»
«Stagno è nei guai.»
«E come può essere nei guai? Qualcuno gli tira sassi?»
«Non lo so,» disse Horton, «ma sta urlando disperatamente.»
Il sentiero s'incurvava, superando il costone. Sotto di loro stava lo Stagno, e più oltre la collina conica. Stava succedendo qualcosa alla collina. Si sollevava e si squarciava, e da essa si stava levando qualcosa di scuro, di orribile. Le tre lumache erano rannicchiate vicine vicine, sulla riva.
Carnivoro accelerò, scendendo a balzi rapidi il sentiero. Horton gli gridò: «Torna indietro, sciocco! Torna indietro, pazzo!»
«Horton, guarda!» gridò Elayne. «Non la collina. Sul dorsale della città.»
Uno degli edifici, vide Horton, si era frantumato, i muri erano crollati, e ne stava uscendo un essere che scintillava al sole mattutino.
«È il nostro essere nel tempo,» disse Elayne. «Quello che abbiamo trovato noi.»
Vedendolo nel blocco di tempo congelato, Horton non aveva potuto discernere la forma: ma adesso, liberato dalla sua prigione, appariva come uno splendore.
Le grandi ali si spiegavano, e la luce vi si rifrangeva in un arcobaleno, come se fossero fatte di innumerevoli, minuscoli prismi. La testa dal becco rapace era sorretta da un lungo collo: e sembrava, pensò Horton, che quella testa fosse coperta da un elmo incastonato di gemme. Lunghi artigli scintillanti si estendevano dalle zampe pesanti, e la coda era irta di spine aguzze e lucenti.
«Un drago,» disse Elayne, sottovoce. «Come i draghi delle vecchie leggende terrestri.»
«Forse,» disse Horton. «Nessuno sa cosa fossero i draghi, ammesso che esistessero.»
Ma il drago, se era un drago, era in difficoltà. Liberato dalla solida casa di pietra in cui era stato imprigionato, cercava di lanciarsi nell'aria, sbattendo goffamente le ali enormi per sollevarsi. Svolazzava goffamente, pensò Horton, quando avrebbe dovuto volteggiare nel cielo con ali forti e sicure, salendo la scalinata dell'aria, come un essere agile potrebbe correre gioiosamente su per una collina, esultando della potenza delle zampe, della capacità dei polmoni.
Ricordò Carnivoro che era sceso correndo lungo il sentiero, e girò la testa per vedere dove poteva essere. Non lo ritrovò subito, ma vide che la collina oltre lo Stagno era stata frantumata, spezzata, frammentata dall'essere che ne usciva. Grandi lastre e pezzi di collina rotolavano giù per i fianchi ripidi, ed ai suoi piedi si era accumulata una grande quantità di detriti, pietre e terriccio. La base, ancora intera, era segnata da crepe zigzaganti, simile a quelle che potrebbe causare un terremoto.
Ma sebbene egli vedesse tutto questo, ciò che incatenava la sua attenzione era l'essere che ne usciva.
Sgocciolava sozzura, e grandi scaglie di sudiciume se ne staccavano. La testa era un grumo, ed anche il resto... un enorme grumo che aveva una parvenza di umanoide, ma non lo era. Era un'orrida parodia dell'umanità che qualche stregone barbaro, sbavando veleno, avrebbe potuto foggiare con argilla e paglia e letame per raffigurare un nemico da torturare e da annientare... tozza, deforme, sghemba, ma con un'alone di malvagità, la malvagità perversa e bavosa presa a prestito da colui che l'aveva fatta, e ingigantita dall'inettitudine. Il male se ne irradiava come un vapore velenoso poteva levarsi da una palude putrescente.
Ormai la collina era quasi spianata, e mentre Horton osservava, affascinato, il mostro si liberò e spiccò un balzo in avanti, coprendo più di tre metri in un unico passo.
Horton abbassò la mano per cercare la pistola, e nello stesso istante ricordò che non l'aveva... era rimasta all'accampamento; aveva dimenticato di agganciarla alla cintura, ed imprecò contro se stesso per la dimenticanza, perché non c'era ombra di dubbio, una cosa maligna come l'essere uscito dalla collina non aveva il diritto di vivere.
Solo in quel momento vide Carnivoro.
«Carnivoro!» urlò.
Perché quel pazzo stava correndo verso l'essere, correva a quattro zampe per procedere più in fretta. Caricava a testa bassa, e dal punto in cui si trovava, Horton poteva vedere il guizzare agile dei muscoli poderosi.
Poi balzò verso il mostro, si arrampicò su quel corpo massiccio, trasportato dallo slancio della carica verso il collo tozzo che univa il grumo della testa al grumo che era il corpo.
«NO! NO!» stava gridando Nicodemus, dietro di lui. «Lascialo a Carnivoro.»
Horton si voltò di scatto e vide che Nicodemus stringeva con una zampa d'acciaio il polso della mano con cui Elayne impugnava la sua arma.
Poi girò di nuovo la testa, e vide Carnivoro avventare la testa di tigre in un colpo lacerante. Le zanne lucenti affondarono nella gola del mostro e la dilaniarono. Un fiotto di nerume scaturì dalla gola, coprendo il corpo di Carnivoro d'una sostanza scura che, per un istante, parve fonderlo con la massa del mostro. Una delle mani a clava si alzò, come per un riflesso istintivo, e si chiuse attorno a Carnivoro, staccandolo dal corpo, sollevandolo e scagliandolo via. Il mostro mosse un altro passo e cominciò a barcollare, crollando in avanti lentamente, come un albero all'ultimo colpo d'ascia, riluttante, sforzandosi fino all'ultimo di restare eretto.
Carnivoro era caduto sulla riva rocciosa dello Stagno e non si rialzava. Horton si precipitò correndo giù per il sentiero superando le tre lumache ancora accovacciate sulla sponda.
Carnivoro giaceva bocconi; inginocchiandoglisi accanto, Horton lo girò lentamente sulla schiena. Era inerte come un sacco. Gli occhi erano chiusi, e il sangue gli sgoragava dalle narici e dall'angolo della bocca. Il corpo era insozzato dalla viscida sostanza nera scaturita dalla gola squarciata del mostro. Dal petto sporgevano ossa scheggiate.
Nicodemus sopraggiunse al trotto e s'inginocchiò accanto ad Horton. «Come va?» chiese.
«È vivo,» disse Horton. «ma forse, non per molto. Non hai un transmog da chirurgo, nella tua serie?»
«Molto semplice,» disse il robot. «La conoscenza di malattie comuni, il modo per guarirle. Alcuni principi della medicina. Niente che possa rimediare una cassa toracica.»
«Non avresti dovuto trattenermi,» disse Elayne a Nicodemus, rabbiosamente. «Avrei potuto uccidere quel mostro prima che posasse una mano su Carnivoro.»
«Lei non capisce,» disse Nicodemus. «Per Carnivoro era necessario.»
«È assurdo,» disse lei.
«Vuol dire,» spiegò Horton, «che Carnivoro è un guerriero. È specializzato nell'uccisione dei mostri. Andava da un mondo all'altro in cerca delle specie più terribili. Una questione culturale. Otteneva una sorta di punteggio elevato, per questo. Stava per diventare il più grande uccisore tra il suo popolo. Questo, molto probabilmente, farà di lui il più grande uccisore di tutti i tempi. Gli assicurerà una specie d'immortalità culturale.»
«Ma a che serve?» chiese Elayne. «La sua gente non lo saprà mai.»
«Shakespeare aveva scritto qualcosa in proposito,» disse Nicodemus. «Aveva l'impressione che, chissà come, il suo popolo lo sapesse.»
Una delle lumache, balzellando delicatamente, venne ad acquattarsi di fronte a Horton, dall'altra parte del corpo giacente. Un tentacolo si estroflesse dal molle corpo polposo, e la punta tastò cautamente Carnivoro. Horton alzò gli occhi, per guardare in faccia la lumaca, senza ricordare che non aveva faccia. L'estremità superiore del corpo ricambiò il suo sguardo... lo ricambiò come se avesse gli occhi. Gli occhi non c'erano, ma c'era la sensazione di essere guardato. Horton provò un formicolio nel cervello, strano e fioco, come una debolissima corrente elettrica, un'impressione spiacevole e nauseante.
«Sta cercando di comunicare con noi,» disse Nicodemus. «Lo sentite anche voi?»
«Cosa vuoi?» chiese Horton alla lumaca. Quando parlò, il formicolio elettrico nel suo cervello ebbe una specie di sussulto — un riconoscimento? — e poi riprese. Non accadde altro.
«Credo sia inutile,» fece Nicodemus. «Sta cercando di dirci qualcosa, ma non è possibile. Non riesce a stabilire un contatto con noi.»
«Stagno poteva parlare con noi,» disse Horton. «Stagno ha parlato con me.»
Nicodemus scrollò le spalle, rassegnato. «Queste cose sono diverse. Una mente differente, un tipo di segnale differente.»
Carnivoro riaprì gli occhi.
«Sta rinvenendo,» disse Nicodemus. «Soffrirà. Torno al campo. Credo di avere una siringa...»
«No,» disse Carnivoro, con un filo di voce. «Niente ago nel deretano. Non sarà per molto. Il mostro è morto?»
«Morto,» disse Horton.
«Bene,» disse Carnivoro. «Gli ho tagliato la maledetta gola. Sono molto bravo a farlo. Sono molto bravo, con i mostri.»
«Dovrai metterti tranquillo,» disse Horton. «Fra un po', cercheremo di muoverti, di riportarti all'accampamento.»
Carnivoro chiuse gli occhi, stancamente. «Niente accampamento,» disse. «Qui va bene.»
Tossì, soffocato da un nuovo fiotto di sangue che gli sgorgò dalla bocca e gli scorse sul petto.
«Che ne è stato del drago?» chiese Horton. «È ancora qui?»
«È caduto dall'altra parte dello Stagno,» disse Elayne. «Non andava. Non riusciva a volare. Ha cercato di volare ed è precipitato.»
«È rimasto troppo a lungo nel tempo,» disse Nicodemus.
La lumaca alzò il tentacolo e toccò la spalla di Horton per richiamare la sua attenzione. Indicò la riva dove giaceva il mostro, una massa nera sulla terra. Poi toccò tre volte Carnivoro e tre volte se stessa. Estroflesse un altro tentacolo, e con entrambi mimò il gesto di sollevare Carnivoro, di stringerlo a sé, di cullarlo con tenerezza.
«Sta cercando di dire grazie,» disse Nicodemus. «Di ringraziare Carnivoro.»
«Forse cerca di dirci che può aiutarlo,» disse Elayne.
Con gli occhi ancora chiusi, Carnivoro disse: «Non c'è niente che può aiutarmi. Lasciatemi qui. Non muovetemi fino a che sarò morto.»
Tossì ancora.
«E per gentilezza non ditemi che non sto per morire. Resterete con me fino alla fine?»
«Resteremo con te,» disse Elayne.
«Horton?»
«Sì, amico mio.»
«Se non succede questo, mi prendevate con voi? Non mi lasciate qui? Mi portavate via quando lasciavate il pianeta?»
«Ti avremmo portato con noi,» disse Horton.
Carnivoro richiuse gli occhi. «Lo sapevo,» disse. «Lo sapevo che mi portavate con voi.»
Ormai era giorno, e il sole era una spanna sopra l'orizzonte. I raggi obliqui si riflettevano sullo Stagno.
E ormai, pensò Horton, non aveva importanza che il tunnel fosse chiuso. Carnivoro non sarebbe più rimasto in quel luogo che odiava. Elayne sarebbe partita con la Nave, e non vi sarebbe stato bisogno di trattenersi ancora. Qualunque cosa doveva accadere sul pianeta, ormai era accaduta. E vorrei sapere, pensò Horton, magari non adesso, ma un giorno vorrei sapere cosa significa tutto questo.
«Carter, guarda!» disse Nicodemus con voce tesa e sommessa. «Il mostro...»
Horton rialzò di scatto la testa e guardò, reprimendo un conato di vomito. Il mostro, che giaceva a un centinaio di metri di distanza, si stava sciogliendo. Ricadeva su se stesso, in una poltiglia putrescente. Fremeva di una vita apparente mentre si afflosciava in una pozza fetida ed oscena, da cui scorrevano rigagnoli di sozzura fumigante.
Guardò, inorridito e affascinato, mentre quello si riduceva a una schiuma oleosa e nauseante, e gli passò per la mente il pensiero che ormai non avrebbe più potuto fissarsi nella memoria la forma che aveva avuto. L'unica impressione che aveva ricavato, nell'attimo prima che Carnivoro gli lacerasse la gola, era di un grumo massiccio e tortuoso che in realtà non aveva forma. Poteva darsi che il male fosse così, pensò... che non avesse forma. Era un grumo e una pozzanghera di sozzura, e non sapevi mai che cos'era, ed eri libero di immaginarlo, spinto dalla paura dell'ignoto ad attribuirgli l'aspetto che più ti sembrava orribile. E così il male poteva assumere tante forme quanti erano gli uomini... e il male di ogni uomo sarebbe stato un po' diverso da quello di ogni altro.
«Horton.»
«Sì, Carnivoro, che c'è?»
La voce era bassa, rantolante, e Horton s'inginocchiò accanto a lui, chinandosi per poter udire.
«Quando è finita,» disse Carnivoro, «lasciatemi qui. Lasciatemi all'aperto, dove mi possono trovare.»
«Non capisco,» disse Horton. «Chi ti deve trovare?»
«I becchini. I pulitori. I piccoli animali affamati che ingeriscono di tutto. Insetti, uccelli, animaletti, vermi, batteri. Lo farai, Horton?»
«Certo che lo farò, se vuoi. Se lo vuoi davvero.»
«Una restituzione,» disse Carnivoro. «Una restituzione finale. Non devo negare la mia carne alle piccole cose affamate. Devo fare di me stesso un'offerta a molte altre vite. Una grande comunione finale.»
«Capisco,» disse Horton.
«Una comunione, una restituzione,» disse Carnivoro. «Queste sono cose importanti.»
27.
Mentre giravano intorno allo Stagno, Elayne disse: «Il robot non è venuto con noi.»
«È rimasto con Carnivoro,» disse Horton. «Per l'ultima veglia. È il suo modo di fare le cose. Una specie di veglia all'irlandese. Ma tu non puoi conoscere le veglie all'irlandese.»
«No. Cos'è una veglia all'irlandese?»
«Tenere compagnia al morto. Vegliarlo. Nicodemus lo ha fatto con gli altri umani che erano sulla Nave insieme a me. Su un pianeta solitario di un sole sconosciuto. Voleva pregare per loro; tentò di pregare e non ci riuscì. Pensava che non fosse giusto che un robot cercasse di pregare. Perciò fece un'altra cosa. Restò un po' con loro. Non si affrettò ad andarsene.»
«È molto bello. Meglio di una preghiera.»
«Lo penso anch'io,» disse Horton. «Sei sicura di sapere dov'è caduto il drago? Non si vede.»
«L'ho visto cadere,» disse lei. «Credo di conoscere il posto. È proprio là.»
«Ricordi che ci siamo chiesti perché il drago era racchiuso nel tempo?» disse Horton. «Se pure era davvero chiuso nel tempo. Abbiamo scritto il nostro copione per nascondere il fatto che non sappiamo nulla. Abbiamo creato la nostra piccola favola umana per conferire un significato e una spiegazione ad un evento che sfuggiva alla nostra comprensione.»
«Per me,» disse Elayne, «è evidente, adesso, la ragione per cui era stato lasciato lì. Era stato lasciato ad attendere che il mostro uscisse dal guscio, per ucciderlo. Non so come, la nascita del mostro avrebbe fatto scattare la trappola nel tempo per liberare il drago... e l'ha liberato, per quel che è servito.»
Horton disse: «Loro... quali che siano, avevano incatenato il drago nel tempo, in attesa del giorno in cui il mostro sarebbe uscito dal guscio. Dovevano sapere che l'uovo era stato deposto: ma se lo sapevano, perché non hanno cercato e distrutto l'uovo, se lo era o qualunque cosa fosse? Perché tutta questa messa in scena drammatica?»
«Forse sapevano soltanto che l'uovo era stato deposto, ma ignoravano dove.»
«Ma il drago era a meno di un miglio...»
«Forse conoscevano solo l'ubicazione generica. Cercare l'uovo sarebbe stato come setacciare ettari di spiaggia sabbiosa, alla ricerca di un oggetto che forse era difficile da distinguere anche se veniva scoperto... camuffato in modo che, anche guardandolo, non l'avresti riconosciuto. E forse non avevano avuto il tempo di cercare. Dovettero andarsene di qui, per qualche ragione, forse piuttosto in fretta, perciò chiusero il drago nella cripta e, quando lasciarono il pianeta, bloccarono il tunnel, in modo che, se fosse accaduto qualcosa e il drago non fosse riuscito ad uccidere il mostro, questo non avrebbe potuto comunque abbandonare il pianeta.
«E la schiusa. Noi diciamo che il mostro è uscito dal guscio, ma non credo che sia il termine esatto. Qualunque cosa abbia posto in essere il mostro deve avere impiegato molto tempo. Il mostro deve aver attraversato un lungo periodo di sviluppo, prima di erompere dalla collina. Come la vecchia locusta dei diciassette anni, sulla Terra, di cui parla la vecchia storia. Ma il mostro ha impiegato ben più di diciassette anni.»
«Quello che non capisco,» disse Horton, «è perché mai chi aveva preparato la trappola chiudendo il drago nel tempo, temesse il mostro al punto di prendere tante precauzioni. Era grosso, sicuro, ed orribile, ma Carnivoro gli ha squarciato la gola con un sol colpo, e lo ha finito.»
Elayne rabbrividì. «Era maligno. Si sentiva il male che se ne irradiava. Tu l'hai sentito, vero?»
«L'ho sentito,» disse Horton.
«Non il male nel senso in cui tanti esseri viventi contengono un po' di male. C'era in lui un abisso di male che non poteva venire misurato. Era l'assoluta negazione di tutto ciò che vi è di bene. Carnivoro l'ha colto di sorpresa, prima che avesse la possibilità di mettere a fuoco tutta la sua malvagità. Era appena uscito dal guscio, appena consapevole, quando Carnivoro gli è piombato addosso. E questa è la sola ragione, ne sono sicuro, che gli ha permesso di fare quel che ha fatto.»
Avevano superato la curva dello Stagno, sotto il dorsale su cui sorgevano le case in rovina.
«Credo che sia lassù,» disse Elayne, «su per la collina.»
Cominciò a inerpicarsi. Horton si voltò indietro e vide Nicodemus, che in distanza appariva piccolo come un giocattolo, ritto sulla riva di fronte. Solo a fatica riuscì a distinguere il corpo di Carnivoro, che pareva confondersi con il gradino di roccia nuda su cui giaceva.
Elayne era arrivata sulla cresta dell'altura e si era fermata. Quando Horton la raggiunse, tese il braccio. «Là,» gli disse. «Eccolo là.»
Un milione di gemme brillava nel sottobosco. Il drago non si vedeva, nascosto dalla vegetazione, ma i riflessi d'arcobaleno irradiati dal suo corpo mostravano dov'era caduto.
«È morto,» disse Elayne. «Non si muove.»
«Non è detto,» fece Horton. «Potrebbe essere ferito, ma vivo.»
Scesero tra gli arbusti, e quando superarono un albero enorme dai rami bassi, videro il drago.
Era di una bellezza che toglieva il respiro. Ognuna delle minuscole scaglie che rivestivano il corpo era un punto di luce gemmea, piccole pietre preziose dai colori squisiti che scintillavano nel sole. Quando Horton avanzò di un passo, tutto il corpo parve incendiarsi: l'angolazione delle scaglie agiva come un riflettore che gli buttava in viso lo splendore del giorno. Ma quando mosse un altro passo, cambiando l'angolo delle scaglie in rapporto a se stesso, il bagliore si spense, e ritornò lo scintillio, come se fosse un albero di Natale interamente coperto e celato da lampadine intermittenti, molto più colorate di quelle che mai avessero ornato un albero di Natale. Azzurri carichi e rossi rubino, verdi che andavano dal pallore di un cielo serotino di primavera all'intensità cupa di un mare infuriato, giallo vivo, il brillio del topazio illuminato dal sole, il rosa dei fiori del melo, il luccichio autunnale delle zucche... e tutti i colori erano coperti da quello scintillio che si può vedere in un gelido mattino d'inverno, quando tutto è indiamantato.
Elayne trattenne il respiro. «Com'è bello!» mormorò. «Più bello di quanto immaginassimo quando l'abbiamo visto nella cripta del tempo.»
Era più piccolo di quanto fosse sembrato in volo, e giaceva immobile. Un'ala di mussolina si stendeva dal corpo snello, ripiegata ad appoggiarsi al suolo. L'altra era gualcita, afflosciata. Il lungo collo era contorto, e la testa era posata con una guancia sul terreno. Vista da vicino, sembrava ancora coperta da un elmo: sulla testa, le scaglie che rivestivano il resto nel corpo mancavano. L'elmo era foggiato di strutture solide che parevano lamine di metallo levigato. Anche il becco massiccio, sporgente dalla maschera dell'elmo, pareva metallico.
E mentre giaceva in silenzio, immobile, l'occhio sul lato in alto della testa si schiuse... un occhio azzurro, un occhio mite, chiaro e limpido e sereno.
«È vivo!» gridò Elayne, e fece per avvicinarsi. Con un grido, Horton tese la mano per fermarla; ma lei lo schivò, cadde in ginocchio accanto alla testa crudele, la prese tra le braccia, e sollevandola se la strinse al petto.
Horton era impietrito, e non osava muoversi, non osava parlare. Una creatura ferita, sofferente... un affondo, un colpo di quel becco adunco...
Ma non accadde nulla. Il drago non si mosse. Teneramente, Elayne posò di nuovo la testa al suolo, tese la mano per accarezzare il collo gemmeo. Il drago batté lentamente le palpebre, fissandola.
«Sa che siamo amici,» disse lei. «Sa che non gli faremo del male.»
Il drago riabbassò le palpebre, e questa volta l'occhio restò chiuso. Elayne continuò ad accarezzargli il collo, rivolgendogli mormorii sommessi. Horton rimase dov'era, ad ascoltare quel bisbiglio, l'unico suono (a malapena un suono) in un silenzio terribile che era sceso sulla cresta della collina. Sotto di lui, dall'altra parte dello Stagno, il gingillo che era Nicodemus era ancora ritto sulla riva, accanto alla chiazza che era Carnivoro. Più in alto, riusciva a distinguere la chiazza più grande che era la collina sventrata da cui era emerso il mostro. Del mostro non c'era più traccia.
Aveva saputo del mostro, pensò... o avrebbe dovuto saperlo. Solo ieri si era arrampicato sulla collina, procedendo sulle mani e sulle ginocchia perché era troppo ripida. Poco prima di arrivare in vetta s'era fermato a riposare, disteso sul ventre, ed aveva captato una vibrazione nel suolo, come il battito di un cuore. Ma aveva detto a se stesso, lo ricordava, che era soltanto il suo cuore a battere, martellando per la stanchezza della scalata, e non ci aveva più pensato.
Guardò di nuovo il drago, e percepì qualcosa di strano: ma gli occorse qualche tempo per capire.
«Elayne,» disse sottovoce. «Elayne.»
Lei alzò la testa e lo guardò.
«Il drago è morto,» le disse. «I colori stanno svanendo.»
Sotto i loro occhi, i colori continuarono a dileguarsi. Le minuscole scaglie persero lo scintillio, la bellezza sparì. Non era più un prodigio, era una grande bestia grigia: e non c'era dubbio che fosse morto.
Lentamente Elayne si alzò in piedi, si asciugò con i pugni il viso madido di pianto.
«Ma perché?» chiese, rabbiosamente. «Perché? Se era racchiuso nel tempo, se il tempo s'era fermato, per lui, doveva essere fresco e forte come nel momento in cui vi era stato imprigionato. Il tempo non sarebbe esistito, per lui. Non vi sarebbero stati cambiamenti.»
«Non sappiamo nulla del tempo,» disse Horton. «Forse coloro che vi racchiusero il drago non ne sapevano quanto credevano di sapere. Forse il tempo non poteva venire controllato facilmente e attendibilmente come pensavano. Potevano esservi ancora pecche in quella che consideravano, magari, una tecnica perfetta.»
«Vuoi dire che qualcosa non ha funzionato, nella cripta del tempo? Che potrebbe esserci stata un'infiltrazione...»
«Non possiamo saperlo,» disse Horton. «Il tempo, per noi, è ancora il grande mistero. La cripta potrebbe avere avuto effetti insospettati sui tessuti viventi o sui processi mentali. L'energia vitale può essere defluita, possono essersi accumulati i veleni del metabolismo. Forse l'attesa è stata più lunga di quanto avessero calcolato coloro che chiusero nel tempo il drago. Qualche fattore potrebbe aver ritardato la nascita del mostro oltre il periodo solitamente necessario per la schiusa.»
«È strano,» disse Elayne, «come si sono svolti gli eventi. Se Carnivoro non fosse rimasto intrappolato su questo pianeta, forse il mostro si sarebbe scatenato.»
«E Stagno,» disse Horton. «Se Stagno non ci avesse dato l'allarme, non avesse lanciato il suo grido d'avvertimento...»
«Ecco. Ecco come l'hai saputo. Perché Stagno aveva paura?»
«Probabilmente percepiva la malvagità del mostro. Forse Stagno non è immune al male.»
Elayne sali il breve pendio e si fermò accanto a Horton. «La sua bellezza è sparita,» disse. «È terribile. C'è così poca bellezza nell'universo: non possiamo rinunciare a quella che c'è. Forse per questo la morte è tanto orribile: toglie la bellezza.»
«Il crepuscolo degli dei,» disse Horton.
«Il crepuscolo...»
«Un'altra vecchia leggenda della Terra,» disse lui. «Il mostro, il drago e Carnivoro. Tutti morti. Una grande resa dei conti finale.»
Elayne rabbrividì nel tepore del sole sfolgorante.
«Torniamo indietro,» disse.
28.
Sedevano accanto al fuoco morente.
«C'è qualcuno,» chiese Nicodemus, «che ha voglia di fare colazione?»
Elayne scosse il capo.
Horton si alzò in piedi, lentamente. «È ora di andare,» disse. «Non c'è più nulla che ci trattenga qui. Lo so, eppure provo una strana riluttanza ad andarmene. Siamo stati qui solo tre giorni, ma mi sembra molto di più. Elayne, tu vieni con noi?»
«Naturalmente,» disse lei. «Credevo lo sapessi.»
«Penso di sì. Lo chiedevo per essere sicuro.»
«Se mi volete e se c'è posto.»
«Ti vogliamo, e il posto c'è. C'è tanto posto.»
«Immagino che porteremo con noi il libro di Shakespeare,» disse Nicodemus. «Nient'altro. Sulla via del ritorno potremo fermarci a raccogliere un sacchetto di smeraldi. So che per noi forse non varranno nulla, ma non riesco a perdere l'abitudine di considerarli preziosi.»
«C'è un'altra cosa,» disse Horton. «Ho promesso a Stagno di portare con noi un po' di lui. Prenderò una delle fiasche più grandi che Shakespeare aveva trovato nella città.»
Elayne parlò, sottovoce. «Stanno arrivando le lumache. C'eravamo dimenticati di loro.»
«È facile dimenticarle,» disse Horton. «Sgusciano via, sfuggono. In un certo senso, sono irreali. È difficile tenerle nella mente, come se loro preferissero così.»
«Vorrei che avessimo il tempo di scoprire cosa sono,» disse Elayne. «Non può essere solo una coincidenza che siano comparse esattamente in quel momento. E hanno ringraziato Carnivoro, o almeno sembrava che lo ringraziassero. Ho l'impressione che abbiano avuto una parte più importante, in tutto questo, di quanto possiamo immaginare.»
La prima delle lumache aveva estroflesso un tentacolo e lo agitava nella loro direzione.
«Forse,» disse Elayne, «hanno appena scoperto che il tunnel è chiuso.»
«Vogliono che le seguiamo,» disse Nicodemus.
«Probabilmente vogliono mostrarci che il tunnel è chiuso,» disse Horton. «Come se non lo sapessimo.»
«Comunque,» disse Elayne, «dovremmo andare con loro, e scoprire che cosa vogliono.»
«Se ci riusciremo,» commentò Nicodemus. «Le comunicazioni non sono delle migliori.»
Horton si avviò per primo, seguito da Elayne e dal robot. Le lumache scomparvero oltre la curva che nascondeva il tunnel, e Horton allungò il passo. Superò la curva e si fermò di colpo.
La bocca del tunnel non era più scura: brillava di un candore lattiginoso.
Alle spalle di Horton, Nicodemus disse: «Povero Carnivoro. Se potesse essere qui.»
«Le lumache,» disse Elayne. «Le lumache...»
«Potrebbero essere del popolo dei tunnel?» chiese Horton.
«Non è detto,» fece Nicodemus. «Le custodi dei tunnel, forse. Le sorveglianti. Non necessariamente le costruttrici.»
Le tre lumache scendevano balzellando lungo il sentiero. Non si fermarono. Raggiunsero l'imboccatura del tunnel e vi saltarono dentro, scomparendo.
«Il quadro dei comandi è stato rimesso a posto,» disse Nicodemus. «Debbono essere state le lumache. Ma come sapevano che stava per accadere qualcosa che avrebbe permesso loro di riaprire il tunnel? Chissà come, qualcuno doveva sapere che la schiusa era imminente, e che il pianeta poteva venire riaperto.»
«È stato Carnivoro a renderlo possibile,» disse Horton. «Ci ossessionava, ci stava addosso, continuava a insistere perché riaprissimo il tunnel. Ma alla fine è stato lui a riaprirlo, a renderlo possibile. E troppo tardi perché gli servisse. Eppure, non possiamo addolorarci per lui. Ha ottenuto quello che voleva. Ha realizzato il suo scopo, e pochi vi riescono. La sua ricerca della gloria è finita, e adesso è un grande eroe culturale.»
«Ma è morto,» disse Nicodemus.
«Dimmi,» fece Horton, ricordando il suo dialogo con Shakespeare, «dimmi prima che cos'è la morte.»
«È una fine,» disse Nicodemus. «Come una luce che si spegne.»
«Non ne sono tanto sicuro,» disse Horton. «Una volta sarei stato d'accordo con te, ma adesso non so.»
Elayne parlò, con una vocetta da bambina. «Carter,» disse. «Carter, ascoltami, ti prego.»
Horton si girò verso di lei.
«Non posso venire con voi,» disse Elayane. «È tutto cambiato. Adesso è diverso.»
«Ma avevi detto...»
«Lo so: ma allora il tunnel era ancora chiuso, e sembrava che non ci fosse possibilità di aprirlo. Vorrei venire con te. Non c'è nulla che desideri di più. Ma adesso...»
«Ma adesso il tunnel è aperto.»
«Non si tratta solo di questo. Non è solo perché ho un compito da svolgere, e adesso posso continuarlo. È per via delle lumache. Adesso so cosa sto cercando. Devo ritrovare le lumache. Trovarle, riuscire a comunicare con loro. Possono dirci quello che abbiamo bisogno di sapere. Niente più sondaggi alla cieca per scoprire il segreto dei tunnel. Adesso sappiamo chi può dirci tutto quello che ci interessa.»
«Se riuscirai a trovarle. Se riuscirai a comunicare con loro. Se vorranno parlare con te.»
«Dovrò tentare,» disse lei. «Lascerò messaggi lungo il percorso, davanti a molti altri tunnel, nella speranza che vengano trovati da molti altri ricercatori: così, se non ci riuscirò io, ci saranno altri che sapranno e potranno proseguire la caccia.»
«Carter,» disse Nicodemus, «tu sai che lo deve fare. Anche se la vorremmo con noi, dobbiamo riconoscere...»
«Sì, certo,» disse Horton.
«So che non lo farai, che non puoi farlo, ma debbo chiedertelo,» disse lei. «Se venissi con me...»
«Sai che non posso,» disse Horton.
«Sì, so che non puoi.»
«Dunque è così» disse Horton. «Non possiamo cambiare la realtà. I nostri impegni sono troppo profondi. Ci incontriamo, e poi ce ne andiamo, ciascuno per la sua strada. È come se questo incontro non fosse mai avvenuto.»
«Questo non è giusto,» disse Elayne. «E tu lo sai. Le nostre vite sono state cambiate, un po'. Ci ricorderemo sempre l'uno dell'altra.»
Alzò il viso. «Baciami,» disse. «Baciami, in fretta, per non darmi tempo di pensare, perché possa andarmene...»
29.
Horton s'inginocchiò accanto allo Stagno e calò la fiasca nel liquido. Il liquido gorgogliò, riempiendola. L'aria spostata si sollevò in mille bollicine.
Quando la fiasca fu piena, si alzò, e l'infilò sotto il braccio.
«Addio, Stagno,» disse, e si sentiva ridicolo mentre lo diceva, perché non era un addio. Stagno se ne andava con lui.
Era uno dei vantaggi di essere come Stagno, pensò. Stagno poteva andare in molti luoghi, pur senza lasciare mai il suo punto di partenza. Come se, pensò, lui avesse potuto andare con Elayne e nel contempo con Nave... e fosse rimasto sulla Terra e fosse morto da molti secoli.
«Stagno,» chiese, «cosa ne sai tu della morte? Tu muori? Morirai mai?»
Ed anche questo era ridicolo, pensò, perché tutto deve morire. Un giorno, forse, l'universo sarebbe morto, quando l'ultimo guizzo di energia si fosse esaurito: e allora il tempo sarebbe rimasto solo ad aleggiare sulle ceneri di un fenomeno che forse non si sarebbe mai ripetuto.
Futile, pensò. Era tutto futile?
Scosse il capo. Non riusciva a pensarla così.
Forse l'ora di Dio conosceva una risposta. Forse quel grande pianeta azzurro sapeva. Un giorno, forse tra molti millenni, Nave, nell'abisso nero di un lontano settore della galassia, avrebbe ricevuto o scovato la risposta. Forse, nel contesto di quella risposta poteva esserci la spiegazione dello scopo della vita, del flebile lichene aggrappato, talvolta senza speranza, ai minuscoli grumi di materia fluttuanti in un'immensità inesplicabile che non sapeva e non si curava che vi fosse qualcosa chiamata vita.
30.
La gran dama disse: Così adesso la rappresentazione è finita. Il dramma si è concluso, e noi possiamo lasciare questo fastidioso pianeta per la purezza dello spazio.
Lo scienziato chiese: Ti sei innamorata dello spazio?
Essendo ciò che sono, gli disse la gran dama, non posso innamorarmi di niente. Dimmi, Monaco, che cosa siamo. Sei abilissimo a trovare risposte alle domande più assurde.
Noi siamo coscienze, disse il monaco. Siamo consapevolezza. È quanto dobbiamo essere, ma ci aggrappiamo ancora a vari rottami che un tempo portavamo con noi. Ci aggrappiamo ad essi perché pensiamo che ci donino un'identità. E questa è la misura del nostro egoismo e della nostra presunzione... il fatto che conformazioni quali noi siamo cerchino ancora un'identità. Ed è anche la misura della nostra miopia. Perché per noi è possibile un'identità molto più grande — noi tre insieme — delle pìccole identità personali su cui continuiamo ad insistere. Possiamo diventare, se lo permetteremo, una parte dell'universo... possiamo forse diventare come l'universo.
Ritengo, disse la gran dama, che tu ti lasci trasportare. Quando cominci, non si può mai sapere fin dove arriverai. Come puoi dire che diverremo parte dell'universo? Tanto per cominciare, non abbiamo idea di cosa sia l'universo, e quindi, come possiamo immaginare che diverremo la stessa cosa?
C'è molto di vero in tutto questo, disse lo scienziato, anche se con ciò non intendo criticare il tuo pensiero, Monaco. Ho avuto, in certi momenti, pensieri assai simili, e debbo ammettere che mi hanno lasciato molto perplesso. Storicamente, credo, l'uomo ha guardato l'universo come qualcosa che ha cominciato a esistere grazie ad un'evoluzione puramente meccanicistica, spiegabile, almeno in parte, secondo le leggi della fisica e della chimica. Ma un universo evolutosi in tal modo, non essendo altro che un costrutto meccanicistico, non avrebbe mai un vero senso, perché non sarebbe progettato per averlo. Un concetto meccanicistico deve far funzionare qualcosa, non deve avere un senso: ed è contrario ad ogni logica a me nota pensare che sia questo il tipo d'universo in cui ci troviamo. Senza dubbio l'universo è qualcosa di più, benché io ritenga che questo sia l'unico modo in cui può venire spiegato da una società tecnologica. Mi sono chiesto in quali modi potrebbe essere costruito; mi sono chiesto per quale scopo è stato costruito. Senza dubbio, mi dico, non è un semplice ricettacolo per contenere materia, lo spazio e il tempo. Certamente, ha un significato più grande. È stato progettato, mi domando, come patria di creature biologiche intelligenti? E se è così, quali attori sono entrati nella sua evoluzione per renderlo tale, quale tipo di costrutto dovrebbe essere per servire a questo scopo? Oppure fu costruito semplicemente come esercizio di filosofia?
O forse come un simbolismo che non può essere percepito né apprezzato, fino al giorno lontano in cui la distillazione conclusiva dell'evoluzione biologica avrà prodotto un'intelligenza inimmaginabile, capace di conoscere finalmente la ragione e lo scopo dell'universo? Si pone anche un altro quesito: che tipo d'intelligenza sarebbe necessaria per raggiungere tale comprensione? Sembra che debba esistere sempre un certo limite per ogni fase evolutiva, e non si può essere sicuri che tale limite non escluda la capacità di conseguire l'intelligenza necessaria per comprendere l'universo.
Forse, disse la gran dama, l'universo non è fatto per essere compreso. Il feticcio della comprensione può non essere altro che un aspetto frainteso di una società tecnologica.
Oppure, disse il monaco, di una società filosofica. Forse più di una società filosofica che di una tecnologica, perché alla tecnologia non importa di nulla, finché i motori funzionano e le equazioni quadrano.
Credo che vi sbagliate entrambi, disse lo scienziato. Deve importare ad ogni intelligenza. Un'intelligenza deve necessariamente spingersi fino al limite della sua capacità. È la maledizione dell'intelligenza. Non lascia mai in pace l'essere che la possiede; non gli dà mai tregua; lo sprona continuamente. Nell'ultimo momento dell'eternità, l'essere si aggrapperà con le unghie all'ultimo precipizio scalciando e urlando per impadronirsi dell'ultimo brandello di ciò che sta inseguendo. E inseguirà qualcosa: sono disposto a scommetterci.
Lo fai apparire così lugubre, disse la gran dama.
A rischio di apparire un pallone gonfiato o un patriota scervellato, disse lo scienziato, affermo che è lugubre, ma splendido.
Ma questo non ci indica la strada, disse il monaco. Dovremo continuare a vivere un altro millennio come tre identità separate, egoiste, o dobbiamo concederci una possibilità di divenire qualcosa d'altro? Non so cosa sarà... qualcosa di eguale all'universo, forse l'universo stesso, o qualcosa di meno. Al peggio, credo, una mente libera, sganciata dal tempo e dalla materia, in grado di andare in qualunque luogo e forse in qualunque tempo, senza pensare a nient'altro, innalzandoci al di sopra dei limiti imposti alla nostra carne.
Vai molto per le spicce, disse lo scienziato. Abbiamo trascorso solo un millennio nello stato attuale. Lasciaci un altro millennio, altri dieci millenni...
Ma ci costerà qualcosa, disse la gran dama. Non l'avremo gratis. Tu che prezzo saresti disposto a pagare, Monaco?
La mia paura, disse il monaco. Ho rinunciato alla mia paura, e ne sono lieto. Non è un prezzo. Ma è tutto ciò che ho. È tutto ciò che posso offrire.
Ed il mio orgoglio, disse la gran dama. E il nostro Scienziato, il suo egoismo. Scienziato, sei disposto a pagare con il tuo egoismo?
Sarebbe difficile, disse lo scienziato. Forse verrà un tempo in cui non avrò bisogno del mio egoismo.
Ah, bene, disse il monaco. Avremo lo Stagno e l'ora di Dio. Forse ci daranno un sostegno morale, e magari qualche incentivo... se non altro, quello di fuggire per sottrarci a loro.
Io credo, disse la gran dama, che finalmente riusciremo a farcela. E non fuggendo per sottrarci a qualcosa d'altro. Credo che alla fine vorremo fuggire da noi stessi. Con il tempo, ci stancheremo tanto dei nostri io meschini, che ognuno di noi sarà lieto di fondersi con gli altri due. E forse riusciremo finalmente a raggiungere quello stato benedetto, in cui non avremo più un io.
31.
Nicodemus stava aspettando accanto al fuoco ormai spento, quando Horton ritornò dallo Stagno. Il robot aveva preparato gli zaini, e il volume di Shakespeare stava in cima al mucchio. Horton posò delicatamente la fiasca, appoggiandola agli zaini.
«C'è nient'altro che vuoi portar via?» chiese Nicodemus.
Horton scosse il capo. «Il libro e la fiasca,» disse. «Credo sia tutto. Le ceramiche che Shakespeare aveva raccolto non valgono nulla. Sono soltanto souvenirs. Un giorno verrà qualcun altro, umano o no, che effettuerà uno studio della città. Umano, molto probabilmente. Sembra che qualche volta la nostra specie provi un fascino quasi fatale nei confronti del passato.»
«Io posso portare i due pacchi,» disse Nicodemus. «E anche il libro. Dato che porti la fiasca, è meglio che tu non abbia altri ingombri.»
Horton sorrise. «Ho una paura tremenda che qualcosa, lungo il percorso, mi faccia inciampare. Non posso permetterlo. Ho Stagno in custodia, e non posso lasciare che gli succeda niente.»
Nicodemus sbirciò la fiasca. «Non ne hai molto, di lui, lì dentro.»
«Quanto basta,» disse Horton. «Anche una boccetta o una tazza, probabilmente, sarebbero sufficienti.»
«Non capisco proprio,» disse Nicodemus, «cosa sia questa faccenda.»
«Neppure io lo capisco,» disse Horton. «Ma ho l'impressione di portare un amico, e nella desolazione ululante dello spazio, un uomo non può chiedere di più.»
Nicodemus si alzò dal mucchio di legna su cui si era seduto. «Prendi la fiasca,» disse. «E io mi caricherò il resto sulle spalle. Non c'è più niente che ci trattenga.»
Horton non accennò a prendere la fiasca. Rimase dov'era, guardandosi intorno lentamente. «Provo una certa riluttanza,» disse. «Come se ci fosse ancora qualcosa da fare.»
«Ti manca Elayne,» disse Nicodemus. «Sarebbe stato bello averla con noi.»
«Già,» disse Horton. «Sì, mi manca. È stato doloroso vederla entrare nel tunnel. E poi c'è anche lui.» Indicò il teschio appeso sopra la porta.
«Non possiamo portarlo con noi,» disse Nicodemus. «Quel cranio si sgretolerebbe a toccarlo. È rimasto lassù molto tempo. Un giorno, un colpo di vento...»
«Non è questo che intendevo,» disse Horton. «È rimasto qui solo per tanto tempo. E adesso lo lasceremo solo di nuovo.»
«Carnivoro è ancora qui,» disse Nicodemus.
Horton disse, con un senso di sollievo. «È vero. Non ci avevo pensato.»
Si chinò e raccolse la fiasca, reggendola delicatamente tra le braccia. Nicodemus si caricò gli zaini sul dorso e si infilò il libro sotto un braccio. Si voltò e cominciò a scendere per il sentiero, seguito da Horton.
Alla svolta, Horton si girò a guardare la casa greca. Stringendo saldamente la fiasca con una mano, levò l'altro braccio in un gesto d'addio.
Addio, disse mentalmente, senza parole. Addio, vecchio albatross delle tempeste... pazzo, coraggioso uomo perduto.
Forse era uno scherzo della luce. Forse era qualcosa d'altro.
Ma comunque, di lassù, sopra la porta, Shakespeare gli strizzò l'occhio.
FINE